“AMOUR”: LA VITA CHE CONTINUA

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di Mariantonietta Losanno

Come può, un film intitolato “Amour”, parlare di morte? Nonostante possa apparire ad una prima impressione un titolo antifrastico, si dimostra capace di modificare la lineare logica narrativa per affrontare l’aspetto emotivo senza sentimentalismi né pietismi. E, ancora più del titolo, l’ossimoro più grande risiede nel fatto che (proprio) un personaggio come Michael Haneke abbia saputo raccontare il senso più profondo di un legame. Un regista la cui filmografia è stata spesso definita “cinema della crudeltà”, perché ha giocato con arroganza sul sadismo, sulla banalità e gratuità del male (tanto cara a Hannah Arendt): un cinema “decadente” e perverso che lo stesso Haneke ha descritto in un’intervista come “una sorta di consapevole omissione del lato bello della vita”. Haneke racconta con fredda e lucida ferocia; pellicole come “La pianista” o “Funny games” sono capaci di far emergere non solo la paura, ma – paradossalmente – la vergogna. Nessuno vorrebbe assistere ad uno spettacolo messo in scena per il puro e insensato piacere di mostrare una follia “accurata”. 

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Nonostante il registro sia completamente diverso, anche in “Amour” (Palma d’oro al Festival di Cannes 2012) il protagonista è il Male; non quello che faceva compiere azioni sadomasochiste, ma un Male ancora più profondo e – soprattutto – incontrastabile. 

Anne e Georges vivono di musica e letture. Hanno tanti anni, ma vissuti con “passione”; si nutrono di cultura e, naturalmente, del loro amore. La loro vita serena di due insegnanti di musica in pensione viene interrotta soltanto dalle visite di qualche vecchio allievo o della figlia Eva, fino a quando un ictus colpisce Anne e logora entrambi. Haneke racconta con “distacco empatico” cosa voglia dire affrontare una malattia invalidante. Come resiste l’amore quando ci si ritrova a subire costantemente umiliazioni? “Amour” mette in scena la parte più degradante di una patologia: i silenzi, l’aggressività, la disperazione. Quando bisogna “farsi forza sul più forte” anche se non lo è, ma è necessario che lo divenga; quando bisogna convivere con il senso di colpa di non essere in grado di decidere per l’altro o di aiutarlo sufficientemente; o, ancora, quando bisogna riuscire a mettere da parte il proprio (legittimo) egoismo nel non voler mai distaccarsi dalla persona amata. Le giornate si ripetono pedissequamente, ci si “aggrappa” a speranze che si rivelano sempre vane ma che servono ad “illudersi” di poter continuare a vivere. Chi assiste cerca di salvaguardare la dignità della persona e si adopera per cercare le migliori cure o i pareri di luminari; nel frattempo, però, mantenendo il “doppio della lucidità” per non soccombere. 

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Ci voleva un regista rigoroso come Michael Haneke a raccontare “la vita che continua” nonostante ci si ritrovi alla fine. Il suo “cinema del dolore” è capace di spingere lo spettatore a sperimentare la sofferenza e ad analizzare l’amore rappresentandolo non come l’idillio di una coppia, ma come qualcosa di primordiale e indicibile, che vive di cura, dolcezza, rabbia, forza e – persino – cattiveria. Emozioni contrastanti e spesso soffocate che emergono anche solo da uno sguardo. I due personaggi “colorati” di Kieslowski (Emmanuelle Riva “Film blu” e Jean-Luis Trintignat “Film rosso”) vengono sconvolti da una malattia che immobilizza entrambi. Il percorso è lacerante da entrambi le parti perché, mentre da un lato si lotta per non arrendersi e non lasciarsi morire, dall’altro ci si prende cura di una persona in modo sfiancante. Siamo tutti fragili, tutti vittime dell’insensatezza che accompagna l’esistenza e che ci impedisce di comprendere come si possa imparare a (soprav)vivere senza una parte di sé. In questo caso, la crudeltà di Haneke è la crudeltà della vita stessa che improvvisamente distrugge: quel dolore insostenibile va contrastato solo custodendo gelosamente quello che resta per renderlo vivo, curando i ricordi con (ancora più) amore. Anche in una casa vuota un sentimento vero non muore mai. E, proprio in quella casa vuota, bisogna sforzarsi di far vivere ancora le idee, le passioni, la memoria: per riuscire a farlo, è necessario prima che quel “male” venga accettato senza negazioni. Anche questo è amore: avere la capacità di non fuggire. La morte è uguale per tutti, ma il morire no: è un percorso individuale che si svolge entro limiti temporali variabili. 

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Paradossalmente, “Amour” sfinisce, ma non annienta. Anzi, consola, come una carezza, come un sorriso. Tutte quelle cose che “si aveva ancora il desiderio di raccontare” devono resistere. Haneke mostra come l’amore sia qualcosa capace di manifestarsi attraverso gesti normali, e “chiede” allo spettatore di trarre da quel “poco“ che resta la forza per accettare che il mantenimento della dignità, a volte, non può esistere senza il prezzo della morte. Tutte quelle “milioni di scale scese dandosi il braccio” andranno vissute con una solitudine che non si rassegna ma che resiste. “Vorrei scoprire quello che intorno c’è da scoprire/per raccontarmi e farmi raccontare [..] e lo vorrei perché non sono quando non ci sei”, canta Guccini: è proprio quel silenzio della “fine” che va riempito ancora con amore.