CORTOMETRAGGI D’AUTORE (VOL.1): SOLUZIONI NARRATIVE CREATIVE E MAI LIMITATE

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di Mariantonietta Losanno

Un’espressione di sé e del cinema in pochi minuti: molti registi si sono lasciati affascinare da questa dimensione cinematografica, e non solo come scelta per esordire alla regia. È possibile lasciarsi stupire da un corto di appena dieci minuti? Sintesi, approfondimento e tecnica: tre elementi che – bilanciati – permettono di esprimere una o più idee senza dover cedere all’approssimazione. 

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1: “Welcome Home”, Spike Jonze 

Anche uno stato di apatia e di insoddisfazione può trasformarsi – grazie ad uno stimolo – in una solitudine piena di desiderio di una donna che si tiene compagnia e riempie la sua vita non lasciandosi fermare dalla banalità del quotidiano. Tutto nasce da un’energia creativa (che, in questo caso, è una danza liberatoria), una forma di alienazione che aiuta ad evadere e che concede la possibilità di aprire uno spazio. Lo stile è sognante al punto da diventare allucinatorio: si apre una nuova realtà in cui è possibile dar vita ad una versione di sé diversa, in cui è possibile ricostruirsi e osservarsi in modo meno intransigente, senza giudizi. Un’esperienza esaltante: la resilienza di una donna che recupera la propria libertà – anche solo per pochi minuti – e segue i propri impulsi sotto l’influenza di una musica piena di ritmo ed energia. Qualcosa in lei si ribella: la creatività è intesa come cura. Come una necessità di esplodere, di concedersi un momento di autenticità, di lasciare che le emozioni siano come sono, spontanee, solo filtrate creativamente. Perché, in fondo, ogni controllo eccessivo è devitalizzante, ed è accettando l’arbitrarietà di un gesto o di una scelta che si crea movimento e liberazione.

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2: “Un chien andalou”, Luis Buñuel 

Due mani che affilano la lama di un rasoio, un occhio ben spalancato che viene reciso – insieme alla luna – e cola una goccia di sangue. La follia dell’amore è l’unica e vera protagonista. “Ciò che vi è di più meraviglioso nel fantastico è che il fantastico non esiste, è tutto reale”, ha detto André Breton. Per un neorealista un bicchiere è un bicchiere e nient’altro; per un surrealista può essere mille cose diverse, perché sono i desideri e lo stato d’animo a fornire una visione del mondo. Amor fou, violenza, pulsioni sessuali, sadismo: l’esordio di Buñuel vuole porre lo spettatore all’interno di un mondo inconscio e irrazionale, mostrando, così, una visione del cinema intimistica e personale. “Un chien andalou” è un racconto “anti-narrativo”, una concatenazione di elementi disturbanti, dissociazioni e ambiguità. Buñuel si impone, sin dagli esordi, come un regista capace di scardinare le convenzioni, rendendo poetico persino un incubo. 

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3: “Due uomini e un armadio”, Roman Polański

Due uomini escono dal mare portando con sé un armadio ed entrano in città, cioè nella vita. La società, però, rifiuta l’essere umano non conformista o afflitto ai suoi occhi da una tara fisica o morale. Perciò, ai due uomini accadono cose terribili e crudeli, che nessuno vede o vuole vedere. Nessuno tollera il singolare trio che sarà obbligato a scomparire e a tornare dal mare da cui è venuto. Polański esprime, attraverso l’armadio, una dimensione ideale. È ingombrante, pesante di sogni, aspirazioni e contraddizioni. Nell’armadio si rispecchiano le relazioni di uomini troppo presi da interessi personali e da false certezze morali: intorno ai due protagonisti il mondo continua a girare in senso opposto e a velocità progressivamente crescente, senza concedere loro la possibilità di resistere alla forza della violenza sociale, che finirà per travolgerli e per riportarli verso il mare. L’armadio è, per definizione, un mobile in cui riporre vestiti, biancheria; che ha scompartimenti, cassetti, a volte specchi. I due “rivoluzionari” minano le convinzioni dogmatiche che nessuno oserebbe contestare. Polański affronta in modo originale la difficoltà di adattamento e il problema della solitudine che si vengono prospettando verso la fine degli anni Cinquanta, con la crisi definitiva degli ideali riformatori che avevano caratterizzato l’Ottobre polacco. 

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4: “Vincent”, Tim Burton 

I personaggi di Tim Burton sono stralunati, eccentrici, feriti, romantici, malinconici. E, soprattutto, costretti alla solitudine perché incompresi e obbligati a costruirsi un mondo interiore e ricco di magia in cui poter esistere. Vincent Malloy è un bambino di sette anni che finge di essere l’attore Vincent Price (doppiatore originale del corto); fa esperimenti sul suo cane ed è ossessionato dai racconti di Edgar Allan Poe. Il corto di Tim Burton esprime a pieno il suo genio creativo; la sua impronta cinematografica è definita: ci sono la fantasia, il gotico, la dissacrazione, lo sguardo fanciullesco. “Vincent” esprime una visione del mondo malinconica ma mai pessimista: una tristezza piena di sensibilità e – persino – di ironia. Lo spettatore si immerge nel delirio di Vincent e comprende come, a volte, sarebbe affascinante concedersi la possibilità di essere prede dei propri sogni e di vivere tutto quello che scaturisce dalla nostra immaginazione. 

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5: “Anne”, Domenico Croce e Stefano Malchiodi

I ricordi possono sopravvivere alla vita? “Anne” ribalta le regole legate alla rappresentazione del mondo onirico, per raccontare – in chiave documentaristica – i sogni di James: le immagini di repertorio raccontano quello che lui sogna, la rotoscopia la vita di tutti i giorni. Il protagonista del corto vincitore del David di Donatello 2021 “abbraccia il tempo”: il dialogo tra animazione e documento ha permesso di realizzare una ricostruzione fantastica e surreale, capace di raccontare qualcosa di “vero”. Attraverso la finzione, si apre un mondo di memorie “involontarie” che non si sapeva neppure di avere: vita e morte si riallacciano e si (ri)torna ad un inconscio collettivo sempre uguale a sé eppure sempre diverso. Non esiste un unico tempo: Domenico Croce e Stefano Malchiodi esplorano – senza retorica – il concetto di memoria che va oltre la vita e la morte. 

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6: “Hotel Chevalier”, Wes Anderson

Un lussuoso hotel parigino e due amanti (Jason Schwartzman e Natalie Portman) che raccontano in tredici minuti una storia d’amore intensa e malinconica. Un cortometraggio (prologo del film “Il treno per il Drajeeling”) che riesce ad esprimere così tanto in così poco: una sensazione di armonia che viene turbata, il fascino, la sensualità, la desolazione, la tristezza. Una colonna sonora che incanta e rapisce: Wes Anderson stupisce e intriga. Per quanto la visione possa apparire semplicistica, “Hotel Chevalier” esprime quel senso di vuoto che solo la noia opprimente e la solitudine riescono a fare avvertire: esiste un tempo giusto per lasciare andare? I dialoghi scarni permettono di immaginare e attribuire un possibile senso: dai piccoli gesti e dagli indizi si può dedurre che tra i due ci sia molto di più che un desiderio di nascondersi in una stanza d’hotel per fare l’amore. Wes Anderson incoraggia una riflessione sui sentimenti e sulla capacità di goderne, sull’ostinazione che delle volte ci spinge ad amare provando dolore o facendo star male l’altro.