di Mariantonietta Losanno
Il fatto che un’isola venga scelta non tanto per la sua bellezza naturale, quanto piuttosto pensando ad un potenziale “ripensamento” del paesaggio influenza, probabilmente, la visione di un film. Cambiare l’habitat naturale, invadere e “attaccare” la natura danneggiano – indubbiamente – la fruizione di una pellicola in cui di paradisiaco c’è veramente poco. Ed è ancora più preoccupante che la spiaggia di Maya Bay abbia chiuso ai turisti per tre mesi perché fortemente danneggiata. La decisione è stata presa dalle autorità thailandesi proprio per l’aumento del turismo in seguito all’uscita del film; i danni maggiori arrivano dalla costruzione di alberghi sulla spiaggia, dai rifiuti gettati in mare e dalle ancore delle barche ormeggiate. Quando vide Maya Bay, Danny Boyle – regista di “Trainspotting” – era certo di aver trovare la location perfetta per ricreare sullo schermo le atmosfere di un paradiso incontaminato; era difficile – ma non impossibile – ipotizzare che l’uscita della pellicola avrebbe decretato la fine di quell’Eden. Una decisione simile è stata presa dalle autorità dell’Alaska – in questo caso, per altri motivi di sicurezza – che hanno portato via il “Bus 142” in cui Christopher McCandless passò i suoi ultimi giorni prima di morire: Sean Penn, come Danny Boyle, nel realizzare “Into the wild” sottovalutò i rischi e, purtroppo, troppi “turisti estremi” hanno perso la vita tentando di raggiungerlo.
Richard è un turista americano in cerca di avventure nell’esotica Thailandia. A Bangkok conosce una persona che gli parla di un’isola segreta e paradisiaca e gli regala una mappa per raggiungerla. Spinto dalla curiosità, Richard si dirige in quel luogo incontaminato, in compagnia di una coppia di amici francesi. Sul posto vive una comunità di moderni hippies, capitanata da una donna di nome Sal. Quello che apparentemente potrebbe sembrare un paradiso terrestre abitato da persone capaci di vivere in pace ed armonia è, in realtà, un luogo che consente all’uomo di spogliarsi di tutti i beni materiali per diventare preda delle pulsioni più basse e meschine. Neppure una spiaggia paradisiaca può eludere la corruzione dell’animo umano: anzi, sembra addirittura che, una volta che la perfezione viene trovata, l’uomo non può fare altro che contaminarla con l’arroganza e l’egoismo. Ne è una prova il turismo sconsiderato che ha portato alla chiusura della spiaggia. Emergono brutalmente rivalità e conflitti personali: ciò che spinge Richard a cercare quel luogo diventa lo stesso motivo per prenderne le distanze. Che sembianze ha il paradiso? Più che cercarlo in un luogo esterno, non sarebbe più giusto trovarlo in noi stessi?
L’atmosfera surreale (che purtroppo ricorda quella di “The Green Inferno” di Eli Roth) porta il film alla deriva. Se ci si concentra solo sull’aspetto “avventuroso”, sull’idea di vivere la vita fino in fondo, soprattutto quando si è giovani, allora “The Beach” si può ritenere un prodotto riuscito; ma la violenza “forzata”, la poca aderenza alla realtà e la crudeltà disturbante portano lo spettatore ad uno “smarrimento narrativo” e ad un distacco da quell’egoismo che sconfina nella crudeltà più totale.