di Mariantonietta Losanno
Qual è la realtà di Michael Haneke, il regista del Male? Il punto di vista dello spettatore corrisponde alla realtà? La definizione di cosa è realmente accaduto – e, quindi, di cosa sia la realtà – è complessa; le immagini ingannano, hanno il potere di mistificare, oppure, di far emergere qualcosa di sepolto, un evento nascosto la cui rimozione è necessaria per proseguire nella quotidianità. Cosa ne scaturisce, allora? Più che paura, paradossalmente, vergogna. Il pubblico vorrebbe “abbandonare” il gioco e arrendersi; non vorrebbe assistere al sadismo di “Funny games”, uno spettacolo messo in scena per il puro e insensato piacere di mostrare una follia “accurata”. Ancora meno vorrebbe essere un “voyeur” ne “La pianista”.
Isabelle Huppert vanta un elenco di performance sofferenti e masochiste nel suo curriculum (le più emblematiche sono proprio la Erika di Haneke e la Michèle di Verhoeven in “Elle”): donne criptiche, che hanno un rapporto complesso con la propria sessualità e che sembrano non avere una moralità. Ne “La pianista”, Isabelle Huppert è un’insegnante di pianoforte al Conservatorio di Vienna, ma nonostante l’età adulta vive ancora con una madre possessiva e molto scostante. Un giorno conosce Walter, un ragazzo che ha abbandonato i suoi studi di ingegneria per seguire la sua classe di pianoforte: tra i due inizia una relazione malata e la sessualità complessa (legata a feticismi, sadomasochismo, voyeurismo e altre perversioni di varia natura) si scopre, insieme al profondo dolore che trascina con sé. Erika nasconde una doppia vita: c’è una parte di lei che appare dura, severa ed impeccabile con i suoi alunni e un’altra che si nutre di cinema porno, squallidi locali e particolari pratiche sessuali. In lei convivono un’irreprensibile borghese e una donna disturbata, pericolosa verso se stessa e gli altri. La causa di questa sofferenza potrebbe essere il rapporto ossessivo e malato con la madre, una donna ambivalente che prima attira morbosamente a sé la figlia per poi distaccarsene, che controlla e limita la sua femminilità, che la incita alla competizione con le sue allieve. Erika prova a difendersi attraverso le sue perversioni e la ricerca di perfezione e di accrescimento culturale. Alla dittatura materna, dunque, Erika prova a reagire, passando dalla totale abnegazione alla insana rivolta che sfocia nella follia. Osserva il resto del mondo con invidia e odio, pensando che “gli altri” siano liberi e felici, mentre a lei è precluso ogni contatto affettivo e fisico. Quella sua proiezione distorta dell’amore influenza la sua vita e i suoi rapporti, portandola a ricorrere a forme di violenza e masochismo. La sua malattia scaturisce dall’esasperazione del conflitto corpo/anima: il fatto che la sua sessualità non si sia mai sviluppata l’ha portata solo ad ossessionarsi per raggiungere un’ideale (irrealistico) di perfezione.
Per Haneke, Isabelle Huppert è la sua musa (la coppia ha lavorato insieme tre volte: “La pianista”, “Il tempo dei lupi” e “Amour”); e al tempo stesso lei sembra a suo agio nel misurarsi con ruoli così enigmatici e disturbanti. Affronta il suo personaggio con maestria, regalando al pubblico una lezione di (a)moralità e trascinandolo nel punto più profondo della nefandezza. Il film è strutturato come un concerto, in cui note e silenzi scandiscono il tempo e la musica accompagna Erika nella sua discesa verso la depravazione. Quello di Haneke è un cinema che distrugge, un cinema crudele (che si ispira al Teatro della Crudeltà immaginato e promosso da Antonin Artand): lo spettatore vive, di conseguenza, ogni volta un’esperienza radicale che mette in discussione convinzioni e coscienze, che tocca il punto più “sporco” del corpo e dell’anima.