di Mariantonietta Losanno
Lonergan affronta il tema del dolore e delle sue conseguenze a lungo termine. In “Manchester by the Sea” mette (letteralmente) in discussione il concetto di “tristezza”, riflettendo sull’idea – spesso fin troppo retorica – che persino la sofferenza più lancinante può incoraggiare e stimolare una crescita personale. Il regista pone al centro della vicenda un personaggio “comune”, Lee, un “tuttofare” efficiente ma indelicato, distaccato emotivamente e tendente alla rissa: l’improvvisa morte del fratello maggiore lo riporta nel suo luogo di origine, per occuparsi del funerale e di suo nipote Patrick. Quei luoghi sono stati spettatori della sua vita passata e lo portano, dunque, a ripercorrere un passato doloroso che per tempo aveva cercato di rimuovere. Lonergan colloca il protagonista all’interno di un contesto minimale, che offre poche informazioni e impedisce allo spettatore di trovare altri motivi di interesse. Mette in atto, quindi, un processo di sottrazione per rendere la narrazione più aderente alla realtà.
La prima riflessione che il regista suggerisce è quella sull’idea che associamo al dolore. Che cosa definisce un film (come un libro, una canzone o una situazione) triste? Il ritmo, la forma, il colore. E se quel colore (cupo, grigio e tetro) cambiasse? Se fossimo capaci di trasformare il vuoto in un “posto sicuro” dove vivere e – persino – “colorarlo” per renderlo più abitabile? Il dolore sarebbe ancora immenso, ma ci salveremmo. E accetteremmo che l’unica possibilità per far sì che la sofferenza non distrugga soltanto è un meccanismo di reazione/costruzione: finché si avrà la forza di dare un senso costruttivo a quel male devastante che attanaglia, si potrà vivere. Perché, se è vero che “la bellezza salverà il mondo”, come scriveva Dostoevskij, è vero anche che la concezione di bellezza va rivalutata e non associata necessariamente a un qualcosa di esteticamente “perfetto”. Lonergan “colpisce” costantemente lo spettatore con flashback che si incastrano all’interno della narrazione e che non hanno contorni definiti. Sembra quasi, anzi, che non abbiano un inizio e una fine e che non siano neppure ricordi passati ma situazioni più vive che mai, proprio perché (fin troppo) irrisolte. Eppure Lee apparentemente sembra non abbia neppure una storia da raccontare. Appare riservato, taciturno; un “uomo qualunque”, uno dei tanti, solo, senza nulla da dire. Un uomo che ha scelto un lavoro e una città che gli permettono di potersi confondere e gli consentono di non dover per forza sorridere con tutti o partecipare a tutti i costi a qualsiasi iniziativa proposta da un qualsiasi vicino invadente. Nega, dunque, di essere qualcuno; ma non può negare di esserlo stato. Per quanto si alieni, si riempia di lavoro per offuscare la mente e non avere il tempo per guardarsi, un tempo c’era qualcosa – e qualcuno – a tenerlo in vita.
Non stupisce che Lonergan venga dalla scrittura (prima per il teatro e poi per il cinema): “Manchester by the Sea” è un costante flusso di parole e di idee, oltre che di dolore. Tutto procede seguendo le dinamiche interiori, i ricordi, le traiettorie passate che si confondono con quelle attuali. Se l’esistenza di Lee sembra essere completamente annichilita da un’indifferenza autodistruttiva, il dolore non può scomparire. Può, però, cambiare forma: trasformarsi in rabbia, in apatia, in anafettività. Il regista entra nelle ferite, nelle radici dei traumi (che ricordano quelli sviscerati da Scorsese in “Shutter Island”), con la delicatezza necessaria a non lacerarle definitivamente. La perdita è ovunque. Ma non c’è (o, meglio, non può esserci) solo dolore. E allora, “Manchester by the Sea” tramuta la sofferenza in uno strano, pungente e malinconico senso dell’ironia, che fornisce una nuova consapevolezza. Tutto quell’“affetto rifiutato” acquisisce, allora, un nuovo significato. E quella vita che – nonostante la tragedia – chiede di essere vissuta, può diventare (forse) più sopportabile. Lonergan sovverte i “colori” e racconta il dolore da una prospettiva capace di restituire poesia alla vita nonostante le sue contraddizioni e le sue profonde ingiustizie. Non c’è morbosità né esasperazione: c’è il racconto di un uomo che rinuncia a qualsiasi emozione per poter sopravvivere. “Manchester by the Sea” non vuole fornire soluzioni definitive o – addirittura – “scorciatoie”: il dolore resta, ma può essere riscritto, ridefinito, ridisegnato. Quel vuoto non si riempie, ma non si espande; sapendo fermarsi al momento giusto, i silenzi, le esplosioni di rabbia e la difficoltà di definire le emozioni (e in fondo di accettarle veramente) conquistano il loro spazio, ma non invadono tutto il resto. Lonergan non suggerisce – banalmente – che possa essere l’amore a salvare tutto e né tenta di suscitare pianti a dirotto cedendo a ricatti morali: lo spettatore rispetta il dolore con sobrietà, scoprendo le proprie fragilità, e (guardando il mare) accetta il futuro.
In tutta questa sofferenza, “Manchester by the Sea” riesce comunque ad essere “pieno di vita”. Quella vita che riaffiora all’improvviso anche per chi crede di non meritarla e che chiede, però, di rispettare ed accettare i tempi del dolore.