di Mariantonietta Losanno
L’esordio alla regia del britannico Richard Ayoade (classe 1977), presentato al Toronto Film Festival nel 2010, è una risposta – e un omaggio – al cinema di Wes Anderson. Un rimando che, però, non scalfisce in alcun modo l’originalità dell’opera che, grazie all’uso non convenzionale della macchina da presa, ad un’atmosfera intimista e malinconica che non sfiora mai toni autocommiserativi e alle composizioni inedite di Alex Turner (voce, chitarra e leader degli Artic Monkeys, band legata ad Ayoade per i videoclip di “Fluorescent Adolescent”, “Cornerstone”, “Crying Lightning” da lui realizzati), si presenta come un’opera classica ma dal carattere nuovo.
Umorismo cinico e profonda sensibilità: “Submarine”, muovendosi tra dramma e commedia, racconta il percorso di formazione di Oliver Tate. Il regista punta tutto sulla narrazione – divisa in capitoli – e nonostante la storia venga raccontata da Oliver, è come se anche lui si trovasse ad essere spettatore della sua vita, come se “spiasse” se stesso. I “drammi” di Oliver sono gli stessi di qualsiasi altro adolescente: primi patemi d’amore, problemi con i genitori e difficoltà di relazionarsi con i compagni di scuola.
“Anche quando sai come soffierà non c’è modo di scansare il vento”, canta Alex Turner. Non c’è un’unica e sola strada da percorrere nel percorso di maturazione: è meglio, quindi, affrontarlo nel modo più naturale possibile – con meno sovrastrutture – perché, in ogni caso, “il vento soffierà contro”. Ayoade disegna i suoi personaggi in una dimensione – volutamente – paradossale per far emergere la loro natura: “Submarine” è un’opera tenera e struggente, che si muove – con estrema coerenza e spontaneità – tra il classicismo delle macchine da scrivere e delle polaroid e la modernità. Oliver racconta la sua “insostenibile leggerezza dell’adolescenza”: emerge il suo terrore di provare dolore, la sua riluttanza nell’accettare la separazione dei genitori e la paura che il suo amore nei confronti di Jordana non venga ricambiato. Quello di Oliver è un romanticismo lontano dalle convenzioni – i due si incontrano in vecchie discariche e in Luna Park abbandonati – ed è, soprattutto, espressione del (goffo) tentativo di rappresentare per lei un punto di riferimento. Jordana, infatti, soffre di dermatite ed è sottoposta ad un accumulo di stress a causa della malattia della madre; Oliver vorrebbe proteggerla e farla sentire al sicuro, ma è lui stesso ad avere difficoltà di accettare la sofferenza. Perché, a quell’età (ma non solo in fase adolescenziale) si fa fatica a relazionarsi con dinamiche così complesse come un cancro al cervello o una separazione dei propri genitori. Allora, Oliver, a volte si aliena costruendosi un universo parallelo così da poter dare libero sfogo a tutta la sua immaginazione. Come se fosse in un sottomarino: costruisce una realtà dove può sentirsi protetto, persino un po’ “compresso”. Un luogo in cui non può entrare niente e nessuno e che, quindi, gli regala qull’invisibilità che – un po’ codardamente – ricerca. E che il microcosmo di Oliver sia proprio un sottomarino non è un caso per un regista di videoclip musicali come Richard Ayoade: il collegamento immediato, infatti, è il sottomarino giallo dei Beatles.
“Submarine”, molto vicino al “cinema dei colori” di Wes Anderson contraddistinto da colori brillanti, contrasti cromatici e precisione a dir poco geometrica, mantiene un equilibrio costante e associa un’ironia intelligente – e funzionale a conservare una sensazione idilliaca e leggera – ad una componente drammatica, commovente ed emozionale. Oliver e Jordana sono, in fondo, in cerca di una definizione di loro stessi; sono due “anime in costruzione” che si domandano “quanto è profondo l’oceano”. Ayoade omaggia, poi, il cinema citando Éric Rohmer: un vero e proprio esempio di rivoluzione cinematografica. Quello di Rohmer è uno stile anticonformista, votato al naturalismo assoluto e caratterizzato da un impianto narrativo tradizionale e una visione radicale e progressista della realtà (in particolare della figura femminile). Ad Ayoade piace “giocare” con il cinema: si diverte con il montaggio, con il sonoro, con il fermo-immagine. Il suo esordio alla regia è un piccolo ma coraggioso concentrato di emozioni: “Submarine” è una pellicola romantica, amara, nostalgica; è un’opera in cui si avverte – in modo tangibile – quella capacità di immaginazione viva e per certi versi eccessiva tipica dell’adolescenza. Il regista (ri)afferma la “bellezza” del sentirsi ancora in cerca di se stessi e ci accompagna lungo un percorso che si conclude di fronte ad un mare in cui poter immergere i piedi: è proprio quel paesaggio a infondere quel senso di libertà ed incertezza che permea l’intera fase adolescenziale.