di Vincenzo D’Anna*
Un coro di indignazioni, vere o di circostanza che fossero, ha scandito la fase relativa alla scarcerazione di Giovanni Brusca, l’uomo che guidava il “braccio armato” della sanguinaria cosca mafiosa dei Corleonesi. Un evento conseguenza di una legge iniqua ed immorale, quella sui pentiti. Iniqua perché contraria agli elementari principii di equità del diritto penale, immorale perché non rispettosa del dolore ed il diritto stesso delle vittime e dei loro familiari, innanzi alla presunta, convenienza dello Stato. Quest’ultima, peraltro, tutta da dimostrare. Utilità Aleatoria, in confronto alla concretezza dei benefici concessi, come lo sconto di pena e gli onerosi benefici economici messi nella disponibilità dei pentiti. In effetti quasi sempre si registra una sperequazione in danno della collettività a vantaggio di chi decide di collaborare con la giustizia. Gli unici ad essere comunque favoriti dal regime che governa i pentiti, sono i magistrati inquirenti. Pubblici ministeri che, con l’uso sapiente dei condoni di pena e dei benefici da elargire, trovano un facile e comodo sostegno alle loro tesi accusatorie. Insomma, gloria acquisita a basso costo. Tesi accusatorie che, allorquando sono comprovate da oggettivi riscontri, sgravano il carico di lavoro alle forze dell’ordine ed ai togati stessi che imbastiscono altri processi quasi mai immuni dal rischio di finire in una bolla di sapone. Brusca ha pure posto in essere un tentativo di depistaggio all’inizio della sua collaborazione e poi per larga parte “ smemorato “ su gran parte dei delitti commessi. Non appare peregrina, pertanto, la domanda retorica su chi siano veramente i beneficiari di questa legge e nello specifico di questo clamoroso ed incompleto pentimento : lo Stato ed i cittadini sotto il profilo della sicurezza sociale, oppure investigatori ed inquirenti? Se la risposta fosse affermativa in favore delle comodità lavorative e dei risultati di cui menar vanto per gli addetti ai lavori, si potrebbe trovare il bandolo della matassa per riuscire a comprendere quali siano, in realtà, gli interessi diffusi della collettività e quelli corporativi di talune professioni. Non mi sento di escludere dal novero delle convenienze anche quella di taluni avvocati adusi a patteggiare pene piuttosto che difendere presunti innocenti innanzi ai rigori di una legge sbagliata oppure malamente applicata e che, comunque inverte l’onere della prova che dovrebbe riguardare chi accusa. Se questo coacervo di interessi particolari e di categoria viene prospettato alla collettività come la tutela di un interesse diffuso, quindi della società, diventa spiegabile come, pur innanzi allo sconcerto di taluni esiti sgradevoli ed inaccettabili, ci si turi il naso e lo si accetti come un male necessario. Si accetterà come un costo necessario anche l’enorme sborso di danaro pubblico per mantenere un sistema che, a quanto pare, brucia circa un miliardo di euro all’anno per mantenere centinaia di “collaboratori” e loro famiglie sotto copertura. Una riforma della legge sui pentiti, che non sia condizionata dai descritti e taciti interessi di parte, potrebbe essere velocemente realizzata in Parlamento. Purtroppo in quelle Aule, la demagogia, l’ipocrisia ed il cinismo politico fanno giustizia sommaria delle volontà riformatrice nel campo della giustizia. Al punto da non consentire neanche una riforma migliorativa della legge in questione, con modifiche di buon senso più che di profonda adesione al diritto concepito nella sua forma più equilibrata ed incisiva. Per fare questo basterebbe verificare, a priori, la veridicità ed i riscontri delle notizie fornite dei pentiti, in un tempo massimo definito, da parte di magistrati estranei alla categoria degli inquirenti interessati ai procedimenti giudiziari investiti dalle rivelazioni. Basterebbe che le rivelazioni fossero piene e complete e non mi pare che Giovanni Brusca abbia rivelato tutto quel che sapeva avendo sulla coscienza, come ebbe cinicamente a dichiarare, tra cento e duecento omicidi, in decenni di “onorata militanza” criminale. Forse ha rivelato quello che agli inquirenti più premeva sapere in una gradazione tutta particolare dei crimini, in un’ottica che teneva conto anche dell’importanza e dell’impatto mediatico dei fatti criminali da lui narrati. Le morti di Dalla Chiesa, Falcone, Borsellino e di altre personalità autorevoli, erano quelle da scoprire per prime ed il resto poteva immaginarsi anche complementare, se non marginale nel contesto. Suggestivo poi il racconto del patto tra Stato e Mafia Corleonese, la fantasiosa e mai provata teoria del “papiello” il documento delle richieste e dei benefici che Toto’ Riina chiedeva per far cessare le stragi. Insomma forse ci si è fermati sulle rivelazioni più suggestive ed in grado di accendere interesse e riflettori, per aprire decennali ed infruttuosi processi a gente famosa e nota, con annessa popolarità per magistrati ed inquirenti. Il nulla di fatto di quei processi, tutti indiziari, può avvalorare quelle ipotesi . Purtroppo può anche avvalorare il sospetto che chiedere una co orario è piena e completa per far piena luce sulle altre decine di omicidi ed efferati crimini, fosse ritenuto marginale e che non tutti i crimini fossero uguali . ‘U Tratturi come chiamavano Brusca, non ha macinato solo nomi eccellenti ma tanta altra povera gente causando un duplice strazio, la perdita dei cari e poi la mortificazione beffarda che irradia la sua ritrovata libertà, a spese dei contribuenti.
*già parlamentare