– di Vincenzo D’Anna* –
“Nei suoi giardini azzurri, uomini e donne andavano e venivano come falene tra i bisbìgli e champagne e stelle”. È questo un piccolo richiamo del capolavoro letterario di Scott Fitzgerald, il “Grande Gatsby”.
Torna alla mente questa dimensione, lieve e leggiadra, dell’esistenza innanzi alla scomparsa di una étoile di prima grandezza come Carla Fracci. Ballo e stelle, falene luminose, sono termini evocativi di un’eterea ed inimitabile artista e non bisogna certo essere degli sciovinisti, per affermare che pochi come lei, abbiano saputo imporsi sui palcoscenici più prestigiosi del mondo nell’arte della danza. Gli americani, che di artisti se ne intendono, attraverso il NY Times, la definirono, nel 1981, la più grande ballerina al mondo. Era raro, al di fuori dei corpi di ballo russi e francesi, riuscire a primeggiare in quell’arte che gli antichi greci intestavano alla musa Tersicore (che letteralmente significa dare piacere con la danza). Eppure il teatro alla Scala di Milano, con Carla Fracci, vi riuscì vincendo la corsa contro i più famosi Bolshoi di Mosca e l’Opera di Parigi. Non ho competenze al riguardo, né saprei dire quali fossero i requisiti tecnici ed artistici che consentirono alla danzatrice meneghina di sbaragliare il campo per diversi anni. So, invece, come altri milioni di italiani, che il vederla volare e roteare su se stessa, su quelle punte e quelle caviglie così esili, lasciava gli incliti ed i profani sbalorditi. Eppure quella levità era il frutto di un quotidiano e faticoso lavoro: un ripetere all’infinito di gesti ed esercizi che non resero mai volgare quel corpo né più florido il volto smunto di una donna di classe infinita. Una storia, quella di Carla Fracci, che per certi versi è tutta italiana, perché fatta di arte e genialità, talento ed applicazione, ma che per altri versi non sembra affatto frutto di “casa nostra”. Quest’ultima sensazione nasce dalla considerazione, del tutto eccezionale, che l’immensa danzatrice fu sempre unanimemente riconosciuta grande, apprezzata, applaudita senza che fossero create appositamente delle antagoniste, per insidiarle la fama, né elargite gratuite e malevoli critiche da parte degli invidiosi, che spesso popolano il mondo degli artisti. Affermare che sia volata in cielo rappresenta un’affermazione di cordoglio per la donna, ma al tempo stesso un pleonasmo per un’artista che era abituata a librarsi in aria e così la ricorderemo.
Nel mentre siamo addolorati per questo eventi, altri parimenti luttuosi, ci addolorano e ci mortificano, al tempo stesso, come abitanti dello Stivale. Stiamo parlando del crollo della cabina della funivia del Mottarone: una tragedia costata la vita di 14 persone ed il ferimento grave di un piccolo di 5 anni. Un disastro, come hanno scoperto gli inquirenti, dovuto alla presenza di un bloccafreni (forchettone) lasciato lì per impedire che il meccanismo di sicurezza andasse in funzione, al fine di poter recuperare economicamente parte dei danni dovuti al lungo blocco dell’impianto a causa del Covid. Questo episodio ci costerna e ci mortifica. Ma non è l’unica tragedia che si abbatte sugli italiani in queste ore e che ci lascia basiti e mortificati al tempo stesso. Dopo anni di denunce da parte di scienziati e ricercatori, di quelli non omologati dalle istituzioni sanitarie, fino a quelle ultime del sottoscritto, nella veste di presidente dell’Ordine dei Biologi, e dei componenti dell’Associazione di Medicina Ambientale, si scopre quanto diffuse ed inquinate siano le “terre dei fuochi” d’Italia. Uno scienziato fuori ordinanza come Giulio Tarro aveva, peraltro, avvertito con largo anticipo che la stessa particolare recrudescenza dell’epidemia in taluni zone del Nord, poteva dipendere dallo spargimento sul terreno, come concime, di prodotti nocivi derivati da scarti industriali e prodotti derivanti dagli allevamenti intensivi. Una prassi, quest’ultima, consentita per legge da uno Stato, il nostro, che ti ascolta solo dopo che Dioniso, dio greco della tragedia, si è manifestato. Insomma solo oggi, per via giudiziaria e giammai per prevenzione scientifica e sanitaria, si accerta che materiali tossici e nocivi sono stati “interrati” nella Pianura Padana. Che a questo traffico illecito, originariamente “accollato” alla camorra ed alla inciviltà delle popolazioni del Sud, si somma l’inquinamento da metalli pesanti contenuti ad altra concentrazione nei fanghi industriali, ed all’inquinamento batterico e virale (Covid Sars 2 compreso) tramite letame della terra coltivata. Mi astengo dal prendermi, con altri, sia le ragioni della denuncia primigenia, sia di alimentare polemiche campanilistiche contro quel Nord che per anni ha puntato il dito contro il Sud. Conviene farlo perché il dolore si spende in silenzio.
*già parlamentare