di Mariantonietta Losanno
Sara e Nicola discutono animatamente, poi lei si butta dalla finestra: questo è l’incipit “surreale” di “Figli”, scritto da Mattia Torre. Lo sceneggiatore, romano di nascita, è scomparso a luglio, dopo una lunga battaglia con il cancro; prima dell’inizio delle riprese, ha affidato la realizzazione a Giuseppe Bonito, suo assistente alla regia in “Boris”. Ed è stata sua figlia, Emma Torre, che ha ritirato il premio per la Miglior Sceneggiatura Originale durante la cerimonia dei David di Donatello. “Voglio fare i complimenti a mio padre che è riuscito a vincere questo premio anche se non c’è più”, ha detto Emma, di appena dodici anni, per poi aggiungere “Bravo papà”. Parole semplici, tipiche di una ragazza della sua età: la sua spontaneità ha commosso tutti e, proprio in relazione al film, ha suggerito una riflessione sul legame genitoriale.
C’è ancora chi si sconvolge sentendo coppie “lamentarsi” della gestione dei figli, delle responsabilità, dei problemi economici, del tempo per se stessi che non si potrà più avere indietro. È come se si dovesse sempre mantenere intatta quella facciata perbenista per cui è concesso solo celebrare una nuova vita, apprezzandone ogni più piccolo aspetto. La vita vera, però, è un’altra cosa. Nella vita reale i figli comportano sacrifici, mettono a dura prova il rapporto di coppia (l’intimità, la “riappropriazione” del proprio corpo per la donna dopo il parto, lo stress delle notti insonni, la difficoltà di conciliare il lavoro e la vita privata), e spesso si arriva persino ad “odiarli”. Nella vita reale, succede anche che una ragazza di dodici anni riceva il premio al posto di suo padre che non c’è più, congratulandosi con lui. Questa facciata perbenista – in un verso o nell’altro – deve crollare. Stesso discorso per la gravidanza: una mamma che si lamenta viene additata come un’ingrata, perché dovrebbe solo apprezzare ogni singola goccia di sudore, ogni nausea, ogni dolore, ogni cambiamento fisico ed emotivo. Perché, altrimenti, che madre sarebbe una che critica il bambino che ha dato alla luce? Ma, ancora: la vita reale è un’altra cosa. Ci sono madri che si sentono in colpa perché credono di non amare abbastanza il proprio figlio perché hanno il “coraggio” di lamentarsi. Un’altra idea da sdoganare: anche i genitori sbagliano. Ci sono genitori che perdonano i figli, ma ci sono anche figli che perdonano i genitori. Tutto questo “Figli” ce lo racconta con una brillante ed intelligente ironia, permettendo al pubblico un’immedesimazione spontanea.
Esistono varie tipologie di genitori. Nicola e Sara fanno parte di quella categoria che “resta”. Che non vuole negare le difficoltà fingendo che vada tutto bene, ma vuole, però, resistere. Resistere alle molteplici complicazioni del quotidiano, alle responsabilità che comporta avere un secondo figlio oggi, alle pressioni costanti. Però, per ogni momento in cui si rendono conto di stare per esplodere, Nicola e Sara fanno un “salto liberatorio”, come per ricominciare tutto da capo e riprendere fiato. Magari si potesse fare così anche nella vita reale. Liberarsi da ogni preoccupazione ed alleggerirsi un po’. Il loro gesto esasperato non è, in realtà, come si potrebbe pensare, un’allusione al suicidio, quanto piuttosto un riferimento al desiderio di sentirsi liberi, di lasciarsi andare quando si sente di non reggere più la situazione. Ma poi risalire e ricominciare: resistere, appunto. “Figli” riesce a inquadrare perfettamente una generazione che prova a farcela con tutte le forze, malgrado tutto. Nicola e Sara sono l’emblema di una coppia che insiste, che si barcamena tra il pianto disperato di un neonato, la gelosia della primogenita e l’egoismo dei familiari che li abbandonano al posto di aiutarli (in questo caso è egoismo, ma ci sono anche coppie che non hanno proprio la possibilità – per forza di cose – di rivolgersi ai propri genitori per farsi aiutare). La difficoltà di arrivare a fine mese, la necessità di lavorare, le poche ore di sonno, i sensi di colpa, la sensazione costante di sentirsi inadeguati. In un’epoca in cui trionfano egoismi e irresponsabilità, “Figli” racconta il peso delle scelte. Ed è proprio di peso che si deve parlare. È inutile continuare ad alleggerire le parole per paura di risultare offensivi: avere un figlio (così come averne due o come impegnarsi in un matrimonio) comporta una responsabilità ed è una scelta che – proprio per il peso che ha – va ponderata.
La scrittura carica di umanità di Mattia Torre ci pone di fronte ad un quesito difficile: che fare quando si resta soli? L’unica risposta che possiamo provare a dare è solo: accettare. Prendere consapevolezza che spesso si diventa adulti in un modo molto diverso rispetto a quello che si era immaginato. Però, si può cambiare solo quello che si accetta. “Figli”, adattamento cinematografico del monologo teatrale “I figli ti invecchiano” scritto anch’esso da Torre e portare a teatro dallo stesso Mastrandrea, ci mostra come due “eroi” tentano di farcela nonostante le discutibili baby sitter, le costosissime pediatre, le frustrazioni: è l’ironia la cifra di tutto il film, la lente che filtra ogni scena. Sono proprio i momenti tragicomici a rendere “vera” la messa in scena: “Figli” spinge i toni oltre il sarcasmo, oltre il cinismo, usando il paradosso e il surreale per porci di fronte alla necessità dell’accettazione. Non si tratta di un messaggio prescrittivo, dogmatico, ma semplicemente di una nuova consapevolezza, resa più efficace da un’ironia straordinaria. Così, tra una risata spontanea – ma soprattutto intelligente – e un pianto disperato, ci si sente un po’ meno soli.