di Mariantonietta Losanno
Tutto ha inizio dall’occhio coperto di Elio Germano/Antonio Ligabue avvolto in una coperta. Giorgio Diritti segue la vita del pittore – “un genio solitario” – sin dai suoi primi anni di vita: l’infanzia e l’adolescenza difficili, le condizioni fisiche che hanno pesato sul suo carattere, gli evidenti sbalzi d’umore, gli atteggiamenti scostanti e talvolta anche aggressivi, le difficoltà di apprendimento. E poi il disegno: il suo intimo rifugio, il luogo dove estraniarsi da tutto e tutti. Il suo tratto era unico, come i peculiari soggetti che delineava con pennellate corpose, cariche di colore e materia. Quella di Antonio Ligabue è un’arte che nasce dall’impossibilità: l’impossibilità di vivere un’infanzia felice, l’impossibilità di comunicare, l’impossibilità di amare. Da qui, l’esigenza di “nascondersi”, ma non nella pittura. Perché è stato grazie al suo estro creativo che è riuscito a superare i limiti imposti dal suo passato: le sue opere sono la naturale conseguenza di una vita tormentata, a tratti tragica e al limite che lo ha reso un “matto” agli occhi di tanti. Quasi a “tempo scaduto”, però, l’arte ha riscattato la sua esistenza.
Elio Germano offre un’interpretazione mimetica di un uomo considerato folle, uno di quelli che vivono ai margini e destinato all’oblio. Fa “suo” Ligabue, il suo genio, il suo tormento, la sua profonda sofferenza interiore. Paradossalmente, se avesse avuto una vita ordinaria e semplice, Ligabue non sarebbe diventato un pittore. “Volevo nascondermi” sta quasi a voler dire “mi vergogno per il mio passato, per le mie condizioni fisiche, la mia goffaggine, il mio carattere schivo, le mie strane abitudini, ma non posso nascondere la mia arte”. Perché è qualcosa che sfugge ad ogni controllo. Giorgio Diritti ritrae un artista con umanità, soffermandosi sulla sua unicità spirituale e seguendo tutte le rigidità e le tendenze compilative del genere. È tangibile la sensazione di emarginazione: anche quando diventerà famoso e celebrato, resterà sempre una forte dose di imbarazzo in Ligabue, dovuto al suo corpo storpio e malato, dalla sofferenza della sua mente e dall’identificazione con gli “ultimi”.
Istintivo, selvaggio e folle: Antonio Ligabue era capace di trasportare il suo dolore sulla tela, creando opere potenti e di forte impatto. Tutti i suoi problemi mentali, le malformazioni fisiche – derivate dalla carenza di nutrimento nei primi anni di vita – che gli causarono il rachitismo, i periodi negli istituti di cura, sulla tela acquisivano senso e valore. Quell’ostinato silenzio che spesso sfociava in violente crisi nervose trovava, attraverso la pittura, un modo di esprimersi. È l’amore ad essere sempre mancato. Il regista “dipinge” un’opera che non rappresenta mai un mostro ma neppure un martire: solo un essere umano. Elio Germano convince a pieno con una prova attoriale furibonda ma precisissima, che vuole essere imitativa ma neanche eccessiva o sopra le righe. Il film accetta il rischio di suscitare un trasporto corporale ed emotivo a volte “duro” da gestire. Perché “Volevo nascondermi” non è un’opera che può celare nulla, appunto. La messa in scena è elegante e veritiera, curata nei minimi particolari negli ambienti, nelle riprese, negli sguardi. Il film che ha trionfato ai David è una pellicola libera, umana e controcorrente nel cinema italiano contemporaneo.