Andrew Beckett (Tom Hanks), giovane e brillante avvocato, viene licenziato dallo studio legale presso cui lavora. I suoi colleghi sostengono che non sia competente, ma Andrew è convinto di essere stato allontanato perché malato di AIDS; decide, allora, di assumere – dopo essersi rivolto a vari legali che hanno rifiutato di rappresentarlo – Joe Miller (Denzel Washington) perché lo rappresenti nella causa per licenziamento illecito. E non è l’unica lotta da affrontare: oltre alle discriminazioni per la malattia, ci si deve confrontare anche con i pregiudizi sull’omosessualità.
Inefficienza e inaffidabilità: sono queste le motivazioni date per giustificare licenziamento. Scuse sostenute fermamente che nascondono un’ipocrisia radicata. “Philadelphia” è una pellicola di denuncia ambientata in un particolare periodo storico: essere sieropositivi negli anni ‘90 significava incorrere in una solitudine sociale, lavorativa e affettiva. L’AIDS – in quegli anni – aveva due origini: droga o omosessualità. Ed entrambe le etichette non erano propriamente tollerate. Oltre alla paura della morte (il tasso di mortalità sfiorava il cento per cento) poi, c’era quella del contagio; da qui, si iniziò a discriminare i malati, etichettandoli come “trasgressivi” o “scandalosi”. L’AIDS conobbe una diffusione esponenziale e venne considerata come un’intenzione mortale. Oggi, nonostante non sia ancora debellata, è possibile tenerla sotto controllo, impedendo lo sviluppo nell’organismo.
Negli anni ‘90, dunque, la diffusione dell’AIDS era un vero e proprio caso mediatico. Il virus, però, venne per anni accomunato ad una specifica categoria di persone, come se ammalarsi fosse una colpa e un qualunque altro uomo – lucido ed eterosessuale – non avrebbe corso il pericolo. Jonathan Demme ha deciso di affrontare la faccenda evitando di forzare la mano ostentando la pietà: “Philadelphia” è una pellicola meticolosamente studiata. Ogni scena, ogni inquadratura, ogni parola ha il suo peso; tutto risulta spontaneo e non enfatizzato solo per suscitare commozione. Il dolore che si avverte è tangibile, realistico e straziante. I segni della malattia, però, sono ridotti per evitare di traumatizzare il pubblico. L’intreccio si sviluppa su due piani paralleli, perché la consapevolezza è doppia; l’analisi è minuziosa e spinge lo spettatore a riflettere sulla natura della “paura del diverso”. Da cosa deriva? Sicuramente si fa forza sul fatto che c’è un gruppo al quale si appartiene e con il quale ci si identifica: nessuno sceglie di odiare da solo. L’idea stessa di discriminazione rimanda all’esistenza di una cerchia di persone che si differenzia per determinate caratteristiche particolari rispetto ad altri gruppi o individui.
“Philadelphia” è una lezione di tolleranza, un’arringa contro l’ingiustizia: è molto di più che una pellicola sul riscatto, è un film che “afferra” una tematica e prova a dare una sferzata a pregiudizi e alle paure che offuscano le menti. Ed è paradossale che a prendere le parti di Andy ci sia proprio un avvocato inizialmente chiuso e contrario all’omosessualità, che in un primo momento aveva rifiutato categoricamente di lavorare per lui. Ragionando su queste tematiche, non viene immediata una riflessione su quelle che sono le discriminazioni attuali sui posti di lavoro? Ad esempio, quante donne devono subire domande vessatorie sulla loro situazione sentimentale (“Vuole avere figli?”, “Vuole sposarsi?”), solo perché si crede di avere il diritto di farle, nonostante sia stato chiarito che è illegale porle. “Philadelphia” diventa, allora, l’emblema di un cinema atto alla sensibilizzazione, sotto vari aspetti. Combattere la paura è – e non sarà – mai facile, soprattutto quando si ritiene che il problema non ci riguardi da vicino. La cura a questa “epidemia dell’intolleranza” può essere soltanto la scelta di continuare a lottare, andando “in direzione ostinata e contraria”, come cantava Fabrizio De André.
“Philadelphia” rappresenta tutto ciò che vorremmo fosse superato: le battute “da bar”, la paura di stringere la mano ad un sieropositivo, le ingiustizie sul lavoro, la discriminazione nella sfera privata e sociale. Però, il dibattito, purtroppo, risulta sempre acceso e sempre attuale.
Dott.ssa guardi che noi sindacati dell’Asl, nonostante i problemi giudiziari degli altri, già siamo d’accordo.I nostri interessi vengono prima di tutto e nonostante tutto. Abbiamo comandato e comanderemo anche questa volta, Lei continui a scrivere, fa bene! In fondo l’interesse dei sindacati è che: tutti lavorino e stiano bene, compresa Lei.
Adesso ci lasci fare i fatti nostri perché noi comandiamo e galleggiamo mentre i direttori invece o li cambiano o li arrestano.
Russo se ne andrà tra poco, come chi lo ha preceduto, noi no…….noi stiamo sempre qua
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