di Mariantonietta Losanno
Quando si pensa ad un colpo di fortuna di solito si ipotizza un’occasione da cogliere al volo, naturalmente in positivo. Per Mirko e Manolo, due giovani amici della periferia romana, una tragedia si trasforma apparentemente in una coincidenza fortunata: guidando distratti a tarda notte, investono un uomo e decidono di scappare. La persona che hanno ucciso, però, è il pentito di un clan criminale di zona; i due ragazzi, mentendo e dicendo di averlo fatto volontariamente, si guadagnano la possibilità di entrare a farne parte. È proprio il padre di uno dei due ragazzi a realizzare la “fortuna” che hanno avuto nel trovarsi al posto giusto al momento giusto: la vita dei due ragazzi – e indirettamente anche quella del padre – è davvero sul punto di cambiare.
Mirko e Manolo credono di essersi guadagnati una possibilità. Sono due ragazzi come tanti, vanno a scuola, frequentano delle ragazze, pensano ingenuamente che la situazione non possa scivolargli dalle mani. Perché è proprio il contesto che li circonda a rivestirli di un cinismo assoluto, impermeabile a qualsiasi possibile etica. I “lupi” del clan sono pronti a sfruttare il loro (presunto) atteggiamento impassibile nel mettere in pratica qualsiasi cosa venga loro richiesta: prostituzione minorile, spaccio di droga, omicidi. Mirko e Manolo eseguono senza mostrare esitazione o rimorso, addirittura sembrano lucidi e distaccati, capaci di tenere sotto controllo il loro “lavoro”. I loro genitori hanno rinunciato al loro ruolo e hanno smesso di reagire: proprio come i membri del clan, sfruttano i loro figli facendo finta di nulla, scegliendo di non soffermarsi sul come vengano intascati così tanti soldi. L’importante è che i soldi ci siano, non importa da dove vengano. L’assoluta freddezza dei due ragazzi, però, è solo apparente. Mirko ha continui scatti di ira, è tormentato dal rimorso, avverte la sofferenza della madre, vorrebbe riuscire a rinunciare alla sua nuova vita; Manolo è più chiuso e riservato, sembra realmente indifferente a tutto, ma nei suoi sguardi si avverte la sua fragilità. L’esordio alla regia dei fratelli Damiano e Fabio D’Innocenzo – appena trentenni – è un’opera di una credibilità che fa paura: non si tratta dell’ennesimo film sulla periferia di Roma, ma di un’attenta riflessione su quello che resta in una persona quando viene ridotta a merce. Non c’è spazio per una coscienza o per dei sentimenti. E, nonostante Mirko e Manolo siano molto legati, non c’è spazio neanche per l’amicizia: quello che l’uno fa per l’altro, pensando di agire “bene”, li spinge solo oltre il limite sostenibile.
Fino a quando si può fingere di non sentire nulla? Quanto è facile assuefarsi al “male” e diventare due messaggeri di morti per riflesso incondizionato? I fratelli D’Innocenzo esprimono la loro idea di “abbastanza” che rappresenta qualcosa che in realtà non basta mai. “Per noi questa terra dell’abbastanza è un luogo grigio, una parentesi limbale, un posto in cui non si ha così poco da rimboccarsi le maniche e costruire qualcosa, sia individualmente che collettivamente, ma al contempo si possiede solo ciò che è abbastanza per accontentarsi e vivere in mezzo, in un limbo appunto”, hanno spiegato i registi. Mirko e Manolo iniziano un vero e proprio “apprendistato criminale”, spinti proprio da un genitore che, se all’inizio aveva consigliato di tornare a scuola il giorno dopo e fare finta di nulla, appena scopre che i due hanno ammazzato un “infame” cambia strategia e diventa il loro più grande sostenitore. Le prove da sostenere, però, diventano sempre più difficili: Mirko e Manolo si troveranno letteralmente sommersi dalla violenza tanto da snaturarli fino alla totale disaffezione verso tutto e tutti. Come si sopravvive in ambienti del genere? Come conciliare una vita normale – scuola, fidanzata, amici – con un contesto che spinge ad accettare di avere soldi e potere? “La terra dell’abbastanza”, presentato al Festival di Berlino del 2018, rappresenta un’idea di cinema ambizioso; è una pellicola incisiva, cruda, per certi versi anche “scomoda”. È difficile sostenere il peso di quell’ “abbastanza” che non trova mai una definizione esaustiva.
Magari bastasse chiedere scusa.