di Mariantonietta Losanno
Che cos’è che spinge i registi – a distanza di più di ottant’anni – a tornare su quei dolorosi fatti, sui protagonisti e sulle conseguenze devastanti del nazismo?
Non esiste solamente l’Olocausto: esistono altre storie e altre ingiustizie. “Woman in Gold” non si concentra solo sulla riconsegna di quadri sottratti illegalmente ad un’importante famiglia ebrea, rappresenta il valore morale della restituzione: non è solo un bisogno di possesso, di proprietà, è la necessità di rendere giustizia ad una perdita emotiva. Si tratta di avere cura dei ricordi, custodirli, dargli vita: Maria Altmann – accompagnata dal suo avvocato – decide di dedicare la sua vita a lottare per riavere ciò che ha perso. Le opere d’arte di proprietà della sua famiglia sono state trafugate dai nazisti nel 1938, durante la Seconda Guerra Mondiale; tra queste, c’era anche il famoso ritratto realizzato da Klimt di Adele Bloch – Bauer (la “Woman in Gold” a cui fa riferimento il titolo), considerato uno dei capolavori più rappresentativi dell’arte della nazione.
Che cosa può voler dire perdere fisicamente gli affetti e non avere neanche nulla che possa ricordarli? Non sono forse i ricordi a tenere in vita i legami? La regia attenta di Simon Curtis decide di focalizzare l’attenzione su una dimensione più personale e umana, rispetto ad altre pellicole su questo tema, facendo così emergere i sentimenti e mantenendo viva la memoria. Quella di Maria Altamann (la sempre impeccabile Helen Mirren) non è né una presa di posizione né la necessità di un pareggiamento dei conti: non c’è nessuna restituzione che possa lenire il dolore di quello che è stato, ma quello che si è perso in termini di affetto, luoghi e appartenenza, si può “riavere” con la legittimazione del ricordo. I possedimenti, i beni e tutte le opere appartenenti alle facoltose famiglie ebraiche vennero saccheggiati dai nazisti e ai legittimi proprietari non restò nulla. Quegli oggetti, però, rappresentano il legame con i propri familiari: sono un punto di contatto, un’immagine ancora viva della loro memoria. “Woman in Gold” è il “ritratto” di una donna spogliata delle proprie origini, costretta a lottare per mettere insieme i pezzi del proprio passato: si tratta di riconoscere quello che è stato, oltre che di risarcire. Rendere omaggio alle persone – in questo caso alla famiglia di Maria Altmann – più che impuntarsi sulla restituzione dell’oggetto, che ha naturalmente un valore inestimabile.
Simon Curtis ha realizzato una ricostruzione cinematografica di una vera battaglia legale: “Woman in Gold” rappresenta la forza di una donna che porta avanti con rigore quel principio di familiarità e appartenenza alle proprie origini. A ridosso dell’8 marzo, Festa della donna, è doveroso rendere omaggio a una donna del calibro di Maria Altmann che sa cosa vuole e sa come ottenerlo, pur restando una vittima di un passato orribile e profondamente ingiusto. “Woman in Gold” è una pellicola fatta di riconoscimenti – e risarcimenti – di sentimenti: è un viaggio tra ricordi dolorosi (grazie all’utilizzo dei flashback), uno squarcio su una realtà mai troppo trattata.