RITORNO A KINDU

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 –   di Vincenzo D’Anna*   –                                                    

Saranno certamente pochi, perlopiù avanti con gli anni, quelli che ricorderanno quell’11 novembre del 1961 quando tredici avieri italiani furono trucidati in Congo. Stavano partecipando ad una missione di pace dell’Onu con due aerei da trasporto della nostra Aeronautica. Catturati dai ribelli, furono prima segregati e poi trucidati nella città di Kindu. A loro fu poi conferita la medaglia d’oro al valor militare. Era la prima volta, dal dopoguerra, che forze armate del nostro Paese venivano impiegate sul campo, sia pure sotto l’egida delle Nazioni unite, per sedare la lotta tra le truppe irregolari e quelle del legittimo governo congolese presieduto da Patrick Lumumba. Quest’ultimo, uomo di spessore culturale e diplomatico, aveva assegnato al Congo una posizione di paese non allineato tra le grandi potenze (USA ed URSS) ed i loro alleati nel Continente Nero. A defenestrarlo, ci pensò il generale Mobutu con un colpo di stato proprio alla fine del ’61. Il Congo era stato una colonia del Belgio ed aveva ottenuto l’indipendenza nel 1960 dividendosi da un’altra regione che aveva dato vita allo stato del Katanga. Tra i due Paesi si alimentava una guerriglia senza sosta e le potenze straniere, le stesse multinazionali, soffiavano sul fuoco per accaparrarsi le concessioni così da sfruttare le ingenti risorse naturali di quel grande Stato a cominciare dalle miniere di cobalto. Nelle adiacenze, due staterelli, il Ruanda ed il Burundi, erano dilaniati dalla guerra tra due etnie (i Tutsi e gli Utu) con eccidi e massacri. Insomma una vera e propria polveriera che l’Onu voleva sedare a prescindere dai giganteschi interessi economici che pure si celavano dietro i contendenti. Dopo oltre mezzo secolo le Nazioni Unite sono ancora di stanza in quelle terre martoriate, ove l’80 per cento della popolazione è di fede cristiana, retaggio della dominazione belga, ma dove viene proclamato un califfato musulmano che genera terrorismo e lotta religiosa. Un odio che adesso viene alimentato da ribelli, se non da considerarsi volgari banditi, soprattutto contro i simboli e le insegne del mondo occidentale. Si ripete, in quella parte dell’Africa centrale, la barbarie della jihad Islamica che ha già allignato e devastato i paesi medio orientali e che è finita con la sconfitta di Al Quaeda – Isis e con la fine della guerra in Siria, grazie all’intervento della Russia, al fianco del satrapo Bashar al Assad. Questo il complesso e tragico contesto nel quale sono caduti l’Ambasciatore Italiano Luca Attanasio e la sua guardia del corpo, il carabiniere Vittorio Iacovacci oltre all’autista Mustapha Milambo, trucidati da non meglio identificati ribelli armati. Viaggiavano sotto le insegne dell’Onu per portare supporti didattici ad una scuola di bambini congolesi. Insomma, compivano un gesto di alto valore morale e solidale, un esempio civico per la popolazione. Forse è stata proprio questa immagine edificante di quell’Occidente che si vuole demonizzare da parte dei terroristi musulmani, ad aver segnato la sorte dei nostri connazionali. La violenza che si basa su dogmi di fede, è cieca e senza limiti: essa diviene uno strumento per affermare la verità assoluta e per contestare l’apostasia e la blasfemia, il contagio delle altre confessioni religiose. Una mala pianta, quella del terrorismo religioso, non ancora del tutto estirpata e che si insinua laddove ci sono masse di diseredati pronti a seguire le teorie sociali politiche e religiose più estreme. Non sono aneliti di libertà né desiderio di democrazia a farsi largo in quei luoghi ma, al contrario, vi imperano satrapi e dittatori. L’Occidente ha certo le proprie colpe, ha sfruttato quelle terre prima con il paternalismo utilitaristico del colonialismo, poi con l’imposizione di regimi politici voluti direttamente (oppure indirettamente) dalle grandi potenze e dagli interessi che queste coltivavano. Dopo anni di autodeterminazione alternata a colpi di stato, le condizioni di quei paesi non sono migliorate più di tanto. Dello sfruttamento delle ingenti ricchezze naturali poco o niente è rimasto in quei posti. La globalizzazione, intesa come processo economico uniformato in tutto il mondo, è guidata, tuttora, solo dalla concorrenza e dal profitto che proviene dallo sfruttamento delle risorse naturali e della manodopera a basso costo priva di una reale rappresentanza dei propri diritti. Invece di mandare forze di interposizione tra eserciti rivali, tra aspiranti dittatori e leader politici democratici, bene farebbero il consesso delle Nazioni, i grandi del G8 e del G12 a stabilire che parte delle risorse debbano restare in quei luoghi a beneficio della ricchezza di quelle popolazioni. Esportare la democrazia, i principi ed i diritti di cittadinanza a persone che hanno gli stomaci vuoti ed i figli che ancora muoiono nella culla, è solo un ipocrita esercizio.

*già parlamentare