“MALCOLM & MARIE”: L’AUTENTICITÀ CHE SI MANIFESTA ANCHE NEL “NON DETTO”

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di Mariantonietta Losanno

Quando la HBO bloccò la seconda stagione di “Euphoria” a causa dell’emergenza Coronavirus, Zendaya chiamò il regista Sam Levinson chiedendogli se fosse in grado di scrivere e dirigere un film durante la quarantena: sei giorni dopo Levinson finì la sceneggiatura di “Malcolm & Marie”, ovvero il primo film prodotto e realizzato durante la pandemia negli Stati Uniti.

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C’è una linea sottile tra l’amore e l’odio. L’opera di Sam Levinson, regista di “Euphoria”, è un riflesso dei tempi in cui viviamo, un “Carnage” moderno ma in bianco e nero. Se quella di Roman Polański era una carneficina senza spargimenti di sangue (solo per la mancanza di armi) scatenata dalla necessità di abbandonare una facciata “perbenista” e dare il via al massacro, quella di “Malcolm & Marie” è una battaglia per avere l’ultima parola, una lotta in cui emergono rancori irrisolti e traumi mai superati (tutto inserito in un contesto artistico). Sostanzialmente, è una lunga – ed estenuante – resa dei conti. Lei è una ex tossica, “salvata” da lui (o è quello che lui vorrebbe farle credere ed è lei a salvarlo tutti i giorni dal suo narcisismo?), aspirante attrice che però tende all’auto sabotaggio e, pur avendo talento, non crede abbastanza in se stessa per affermarsi e non riesce a perdonarsi per il suo passato di droghe e antidepressivi. Si sente, nonostante tutto, costretta ad interpretare un ruolo – che sembra per natura non appartenerle – ovvero quello della compagna accondiscendente: è come se fosse letteralmente “incastrata” in una realtà che non la soddisfa e la rende ancora più insicura e fragile. Lui è un regista in ascesa, troppo preso dal suo egocentrismo e dalla sua superficialità per focalizzarsi sulle cose importanti ed apprezzarle. È innamorato di Marie, ma proprio nella serata più importante, quella della presentazione del suo nuovo film, si dimentica di ringraziarla nel suo discorso. Da qui nasce una lite con varie “pause”, in cui sembra che la situazione si rassereni per poi esplodere violentemente poco dopo: un loop continuo che dura cento minuti, in cui se Malcolm fa un passo avanti per redimersi e concludere la discussione, Marie sembra perdonarlo ma nel giro di pochi istanti la situazione degenera nuovamente. I motivi sono tanti (o troppi), tutti profondamente complessi; non è solo il fatto che Malcolm si sia dimenticato di fare il suo nome a ferire Marie, ma anche la sua riluttanza ad ammettere che la protagonista del film sia ispirata proprio a lei: questo le provoca una sofferenza ancora più grande perché si sente esclusa dal suo ruolo di compagna e da quello di “musa” artistica. Sente di aver fallito su più fronti: la sua carriera non ha decollato per colpa dei suoi trascorsi e anche nella sua vita di coppia non agisce da “protagonista”, ma spesso subisce torti e mortificazioni. Malcolm, in realtà, non è solo così preso da se stesso da non riuscire a concentrarsi su di lei, ma è come annebbiato: infatti, inveisce spropositatamente anche contro la prima recensione del film (che esce in piena notte) che, tra l’altro, era positiva.

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Sam Levinson restituisce al cinema il posto che gli spettava. Grazie alle interpretazioni viscerali e ai dialoghi acuti e taglienti, lo spettatore “spia” un momento di rara autenticità. In un crescendo di offese velenose, Malcolm e Marie si accusano a vicenda, anzi, spesso si impegnano anche per colpire più duramente l’altro, ma poi si consolano. Tutta questa passione intrisa di odio non esclude l’amore. Sembra che la discussione subisca solo dei momenti di pausa (collocati nei punti giusti e che sembrano utili al pubblico per fermarsi a riflettere in silenzio), senza arrivare mai ad una vera e propria evoluzione: non è necessario, però, focalizzarsi su questo aspetto, perché una conclusione reale del “problema” non può esistere. Un rapporto di coppia è costruito (anche) dai confronti e dalle discussioni animate, spesso si arriva ad urlare e ci si sente profondamente stremati: il conflitto tra i due è ancora più profondo e sfaccettato di quello che si vede. Assume particolare importanza anche e sopratutto quello che non viene detto. Malcolm e Marie si raccontano (e ci raccontano) come possano coesistere emozioni così contraddittorie fra loro e come queste stesse emozioni debbano confrontarsi con le ambizioni personali (in questo caso, quelle artistiche, quindi il film è pieno di citazioni cinematografiche): nonostante le parole urlate per ferire e le lacrime, abbiamo la necessità di rispecchiarci in qualcosa di reale. “Malcolm & Marie” ci ricorda questa esigenza e l’esigenza del cinema in generale. Siamo abituati a vedere un film e a “razionalizzarlo” entro determinate logiche, ma, come in questo caso, c’è bisogno solo di “sentire”. Nella pellicola di Sam Levinson c’è tanto su cui soffermarsi (il dibattito culturale, il diritto che si dà un artista quando “usa” la vita di chi ha vicino per realizzare un film): ci sono un’acutezza e una qualità di scrittura rare da riscontrare. 

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Il potenziale di questa pellicola (molto teatrale) sta tutto in una “casa”, nelle performance degli attori (Zendaya, protagonista di “Euphoria”; John David Washington, “Tenet”, “BlackKkklansman”), nella fotografia (Marcell Rév riesce a gestire perfettamente gli spazi della villa in cui si svolge l’intero film), e nella musica (curata da Labrinth e dalla music supervisor di “Euphoria”, Jen Malone): “Malcolm & Marie” è un film libero nonostante sia stato girato sotto i limiti imposti dalla pandemia. Potrebbero sembrare troppi i cento minuti quasi unicamente dedicati al dialogo, se non fosse che grazie alle performance intense, appassionanti e realistiche, possiamo indagare anche quello che non viene detto. In questo “Carnage” in bianco e nero c’è tutto l’odio che spesso l’amore nasconde quando c’è ancora la passione. In più, c’è la superbia di due artisti che si sfidano e si provocano continuamente. Tutto inizia sottotono per poi proseguire con dei veri e propri “assoli”, dei monologhi in cui uno accusa e l’altro ascolta, aspettando il proprio “turno”. In alcuni momenti ci si sente oppressi dall’atmosfera claustrofobica e dalla sofferenza insostenibile (simile a quella di “Storia di un matrimonio”), perché si vorrebbe – ingenuamente – arrivare ad una riconciliazione definitiva. Tra l’altro, lo spunto per il film è un fatto accaduto davvero a Levinson stesso, cioè non aver ringraziato la moglie durante la prima di un film e aver poi discusso con lei dell’importanza di un simile gesto e di quello che implica: i due non hanno litigato come Malcolm e Marie, ma il regista ha avuto comunque modo di riflettere su cosa significhi realmente sentire che il proprio “contributo” (artistico e personale) non venga riconosciuto.

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La pellicola in 35 millimetri, l’eleganza del bianco e nero e un cast d’eccellenza: una ricetta – apparentemente – semplice per creare una pellicola intensa ed emozionante. Tutto ha un sapore di “realtà”: Malcolm che si lascia andare e si concede una danza liberatoria, Marie che cerca di mascherare il suo stato d’animo preparando meccanicamente dei maccheroni al formaggio. Due personalità complesse che, così come i loro corpi, si respingono e si abbracciano, si odiano e si amano: il loro rapporto è basato sulla complicità, ma anche sui ricatti morali e sulle logoranti verità taciute. Gli sguardi sono perforanti e esprimono tutti i risentimenti, i rancori e i tradimenti; quella che a prima vista può sembrare un’opera “semplice”, è capace di riportare l’arte cinematografica al suo stato più puro ed essenziale. La voglia di raccontare una storia, di lasciare che restino nell’ombra i sottotesti politici e sociali, di “intrattenere” lo spettatore anche solo attraverso l’espressione di un personaggio. Ci si sente “voyeur” perché si assume una posizione per certi versi scomoda e invadente: si entra – letteralmente – nella casa di due persone di cui ci si fa un’idea, si simpatizza per l’uno o per l’altro, si immagina cosa avvenga dopo, ci si domanda cosa li spinge a stare insieme e se si tratta di un sentimento vero. Si giudica, allora? No, ma si assiste con partecipazione: inevitabilmente, ci si immedesima. Si riflette su cosa possa voler dire sentirsi espropriati della propria identità e come spesso serva ringraziare (anche nel senso di riconoscere l’importanza e il merito) con umiltà e rispetto: “Malcolm & Marie” è l’espressione di un cinema che ha bisogno di esprimersi, un bisogno che si trasferisce anche sui due protagonisti. Per alcuni poteva bastare anche un semplice e banale “grazie”, ma c’è molto di più: c’è la rabbia repressa dovuta al fatto che spesso si ama per guarire, e si trascina avanti un amore che porta con sé un carico di sofferenze insostenibili. Forse nulla tornerà più come prima, o forse Malcolm e Marie avranno imparato a rispettarsi di più dopo questa estenuante lite. In una spirale di insicurezze di dipendenza affettiva, ci si può sentire in pace? Quello che c’è di irrisolto forse resterà così per sempre, o magari perdonandosi giorno per giorno, pian piano, quel dolore diventerà meno soffocante. I due non possono fare a meno di “spogliare” il loro rapporto, cercando di vederlo da un’altra prospettiva, mantenendo al tempo stesso quella personale. Attraverso il litigio si indagherà anche come l’arte, il lavoro e il loro passato possano avere influito sulle loro personalità, arrivando anche a dare per scontata la presenza dell’uno al fianco dell’altro. 

Che ne sarà di Malcolm e Marie, allora?