– di Giancarlo Bedini –
Le vicende legate agli acquisti delle mascherine e delle siringhe per vaccini da parte del Commissario per l’emergenza COVID, con relativi ingenti sprechi ormai attestati da tecnici ed operatori, dimostrano solo che in quei casi vi sono stati colpevoli errori di valutazione od anche che si è smarrita l’attenzione ad una gestione efficiente della spesa? E, sotto quest’ultimo profilo, la domanda provocatoria che sorge è: era meglio quando andava peggio?
Quando i soldi erano pochi e si trattava di contenere il debito e il deficit su livelli sostenibili anche nel breve periodo, rispettando i parametri di Maastricht, la “spending review” era divenuta progressivamente un obiettivo ed una prassi dichiarati dai governi. In particolare dal 2012 al 2017 si alternarono sei commissari alla “spending review”, scelti tra tecnici di riconosciuto valore e indipendenza, Bondi, Giarda, Canzio, Cottarelli, Perotti, Gutgeld. Più o meno tutti giunsero a consegnare al governo poderosi report di analisi della spesa pubblica a 360 gradi, con l’individuazione delle riduzioni possibili e con la quantificazione del conseguente risparmio. Il metodo della “spending review” era piuttosto nuovo per l’Italia, abituata da sempre ai “tagli lineari” e veniva, come spesso accade, importato dai paesi anglosassoni, senza tuttavia che ci si credesse fino in fondo. Fu così che le indicazioni contenute nei report dei commissari ebbero poi scarso seguito, incidendo ben poco sull’andamento del deficit e provocando anche le dimissioni polemiche di qualcuno dei commissari. Tuttavia la differenza tra quel periodo ed oggi è evidente: il tema della “spending review” è passato da qualche anno di moda e, nell’ultimo periodo, sembra del tutto abbandonato, annegato in quel sentore di “vacche grasse” che è l’Italia al tempo del debito acquistato dalla BCE e del Recovery Plan e può forse spiegare anche “incidenti” come quelli riportati all’inizio.
In realtà, a prescindere da ogni valutazione sulle caratteristiche effettive e la durata di questo “liberi tutti” in materia di spesa pubblica, la “spending review” è qualcosa d’altro che una semplice tecnica ragionieristica per attuare i programmi di austerity (come pensano i disinformati) ed è proprio questa la ragione perché è stata ed è così difficile da realizzare. Con la “revisione della spesa” si mira infatti, per definizione, ad ottenere gli stessi risultati (o a migliorarli) in termini di servizi e benefici alla collettività recuperando risorse in modo mirato da singoli e specifici impieghi inefficienti. Per esempio margini di spreco possono sussistere in forniture aggiudicate senza adeguata concorrenza o rinnovate da tempo immemorabile allo stesso fornitore, in sussidi e finanziamenti a enti o associazioni inoperativi o divenuti ormai scatole vuote, nella gestione di enti e società pubbliche con organi di amministrazione ridondanti o rispondenti a logiche spartitorie, in consulenze inutili e in tante altre fattispecie di spesa che chi conosce il funzionamento di un ente pubblico ben conosce. Andando a recuperare risorse là dove non vi è alcun valore aggiunto per la collettività, anche contrastando specifici e consolidati interessi sia politici che di categoria, per destinarle alla riduzione del debito oppure ad altre spese prioritarie, il metodo della “spending review” è uno strumento che corrisponde a finalità di “giustizia” nella gestione delle risorse pubbliche e quindi valido sempre. Semmai la cultura amministrativa che ne sta alla base, piuttosto che esercitarsi ex post (con grandi oggettive difficoltà a raggiungere risultati) dovrebbe essere praticata in maniera concomitante all’adozione delle scelte e questo richiede l’inserimento dei meccanismi necessari in una riforma finalmente efficace della pubblica amministrazione