– di Vincenzo D’Anna* –
Sta trascorrendo senza troppi clamori e men che meno celebrazioni, la giornata dedicata alla triste memoria delle Foibe. Un evento costato migliaia di deportazioni e di omicidi compiuti dalle truppe comuniste del maresciallo Josif Broz Tito. Costoro, nella primavera del 1945, raggiunsero, a tappe forzate, le città di Trieste e di Gorizia anticipando gli Alleati in quella che passò alla storia come la “corsa per Trieste”. In poche settimane nei territori di Istria e Dalmazia ed in parte della Venezia Giulia, i partigiani jugoslavi effettuarono una vera e propria operazione di pulizia etnica. A farne le spese furono non solo i militari ed i fascisti ma anche parte della popolazione locale. Gente inerme che ebbe la sola colpa di essere italiana oppure in qualche modo compromessa con l’occupante italiano. Le vittime si contarono a migliaia ed i loro cadaveri finirono occultati nelle foibe, cavità rocciose strette e profonde tipiche dell’altipiano carsico dove spesso i malcapitati venivano gettati ancora vivi, condannati così ad una morte orribile. La macabra vicenda fu tragicamente “integrata” da uno spaventoso, quanto allucinante sistema di campi di concentramento (tristemente famoso quello di “Goli Otok”), in cui furono deportati in centinaia e dove si moriva di fame, di freddo, di malattie ma anche in seguito a fucilazioni sommarie e ad atroci torture. Quanti sopravvissero, non poterono fare altro che prendere quel poco che possedevano e dirigersi, esuli, verso le confinanti terre italiane con mezzi di fortuna. Fu un esodo biblico, quello istriano, dalmata e giuliano, che sparse tanti nostri connazionali per tutte le regioni del Belpaese dove spesso furono accolti con disprezzo e malcelata ironia, in particolar modo dai “compagni” di casa nostra, complici e sodali dei titini. La verità storica ci impone di dire, anche in questa sede, che la spaventosa rappresaglia comunista fu molto crudele e cruenta, anche verso la popolazione civile, per le precedenti atrocità ed i crimini che parte della popolazione slava aveva, a sua volta subìto, sotto l’occupazione nazi-fascista, anche ad opera degli Ustascia di Ante Pavelic, nazionalisti della peggiore specie, che si opponevano ad altre etnie, in particolar modo a serbi, ebrei e rom, in maniera spietata. Insomma: protagonisti di una guerra civile simile a quella scoppiata in Jugoslavia negli anni Novanta del secolo scorso, alla morte di Tito ed al crollo del suo regime. Una guerra sanguinosa e fratricida, durata un decennio, che portò alla disgregazione di quella che era stata la terra degli slavi. In ogni caso, qualunque fossero stati i rancori e gli strascichi di quel conflitto, le atrocità titine furono di tipo razziale eseguite a danno di popolazioni che non potevano difendersi. Un crimine diffuso e sistematico, insomma, che ben avrebbe diritto di essere equiparato alla Shoah degli Ebrei, deportati e trucidati dai nazisti. Essere italiani era un fatto etnico che autorizzava gli jugoslavi a massacrare quanti avevano avuto la sventura di essere nati sotto le insegne del tricolore. Solo nel 2004 fu istituita la ricorrenza del ricordo di questa parte della storia patria occultata colpevolmente, per decenni, alla conoscenza delle generazioni che si sono succedute nel dopoguerra. I libri di storia, allorquando questa materia era fonte d’insegnamento, tacevano volutamente tale drammatico evento relegandolo, al massimo, in qualche striminzita nota a piè di pagina. Non a caso in Italia, negli anni che succedettero la fine del secondo conflitto mondiale, prosperava politicamente il compromesso costituzionale tra le forze cattolico liberali e quelle socialcomuniste, che aveva fortemente condizionato l’impostazione della nostra Magna Carta e la politica stessa, con il varo di un governo di solidarietà nazionale. Insomma: non se ne doveva parlare per non inimicarsi l’interlocutore togliattiano. Neanche la successiva, schiacciante vittoria della Democrazia Cristiana, il 18 aprile del 1948, e la formazione di un governo che escludeva socialisti e comunisti, consentì di poter rendere note quelle tragiche vicende. Nossignore. Occorreva che Trieste tornasse italiana e che il protettorato inglese abbandonasse le terre ancora contese tra italiani e jugoslavi. Solo nel 1954 De Gasperi riuscì ad ottenere il ritorno della perla dell’Adriatico all’Italia, firmando il memorandum di Londra. I bersaglieri entrarono in città il 4 novembre di quell’anno, nel tripudio generale di un popolo che si era sentito sempre italiano, anche sotto l’impero Austro Ungarico. Non si erano mai sopiti i sentimenti della “patria italiana” nella popolazione fin da quando le nostre truppe avevano sbaragliato le forze degli imperi centrali a Vittorio Veneto, il 4 novembre del 1918. Per anni raccontare queste vicende, del tricolore che sventolava sulla grande piazza dell’Unità italiana di Trieste, fu catalogato come un atto nazionalista e come tale di scarso valore storico. Furono quelli gli anni dell’oblio calcolato, in omaggio all’anedottica partigiana, gestita ed imposta nelle piazze del Paese dalla sinistra politica. I democristiani, persa la guida di De Gasperi e Sturzo, si avvitarono sulla gestione del potere e cedettero al compromesso di cancellare una parte della storia della Nazione. Ma che lo si tenti di fare ancora oggi è un peccato mortale.
*già parlamentare