– di Vincenzo D’Anna* –
Si dice che se un libro non ti cambia la vita, non influisce minimamente sul modo di vedere e giudicare le cose, è stato inutile leggerlo. Non so quanto possa essere considerata generalmente vera questa massima culturale, so però che sono stato diretto testimone della sua fondatezza. Per anni, infatti, avevo dato alla lettura della storia della dottrina sociale della Chiesa, allo studio delle encicliche papali, un’interpretazione tutta impostata sul principio di solidarietà. Un’ottica politica sbilenca, la mia, per quanto moralmente ineccepibile, che non teneva in alcun conto le regole dell’economia di mercato e della necessità di doverla produrre, la ricchezza, per poterne poi successivamente distribuire una parte attraverso il cosiddetto “welfare state”. Com’è noto, fu la “De Rerum Novarum”, enciclica scritta da Papa Leone XIII, a distinguere, per prima, i valori della solidarietà cristiana da quelli professati dagli anarchici e dai socialisti massimalisti. In quella enciclica il Pontefice sanciva tutta una serie di valori alternativi al socialismo, tra i quali la legittimità della proprietà privata, intesa come espressione del risparmio proveniente dal salario del lavoratore. Quei principi ispirarono il sindacalismo delle “leghe bianche” in alternativa a quello rivoluzionario e la politica economica e solidale di Giuseppe Toniolo. Quei valori furono incartati, agli inizi del secolo scorso, nell’appello ai “Liberi ed ai Forti” di don Luigi Sturzo. Il suo fu un vero e proprio manifesto politico ispiratore del partito popolare, che concesse ai cattolici la possibilità di sentirsi rappresentati in politica, schiudendo gli occhi ad un’economia di mercato di ispirazione liberale mitigata dal principio della solidarietà e dell’aiuto ai più bisognosi e sfortunati. Un’ottica, quest’ultima, che per la verità spinse anche molti cattolici sulla sponda socialcomunista, dove ogni ricchezza privata era ritenuta deplorevole e sospetta. Una società, insomma, nella quale il principio di ridistribuzione della ricchezza prevaleva su quelli che dovevano garantire la produzione della ricchezza stessa. Un errore che compresi leggendo le “Prediche inutili” di Luigi Einaudi. Compresi allora come la prima delle libertà da tutelare in una comunità è quella che ogni uomo possa intraprendere e creare ricchezza e che solo da questa ricchezza origina la possibilità di poter essere solidali. Compresi che nessun pranzo è mai gratuito e che alla fine c’è sempre qualcuno che lo paga con tasse e balzelli, che non esiste il denaro pubblico ma solo quello dei contribuenti. Insomma: capii che dai leciti vizi privati e dalle sane ambizioni possono nascere le pubbliche virtù, e che tutti quanti noi siamo portatori di diritti indisponibili allo Stato. Nel corso del XX secolo su questa dicotomia di valori sono state costruite le battaglie ideologiche più furibonde tra capitalismo e socialismo. In seguito, la moderazione ed il superamento dei principi ideologici estremizzati, ha scongiurato tensioni sociali e sovvertimenti dei diritti civili a vantaggio dei principii di libertà e di democrazia. Venendo ai giorni nostri. Com’è noto, gli Stati di antica democrazia sono quelli ispiratisi ai principi del liberalismo, criterio che viene applicato anche in economia con il libero mercato di concorrenza. Molti altri invece si sono ispirati a forme di organizzazione pseudo-liberali nelle quali è lo Stato il vero detentore delle prerogative civili ed economiche, non i singoli cittadini. In queste nazioni vige una sorta di cripto socialismo, che riduce i cittadini a sudditi, avviliti dalla burocrazia e dai monopoli statali. Per dirla con altre parole: i cittadini subiscono l’invadenza pervasiva dello statalismo e sopportano il peso del debito pubblico. L’Italia, ahinoi, appartiene a questa seconda categoria dove prevale l’economia statale e la teoria dell’intervento dello Stato (compartecipe in circa diecimila aziende quasi tutte decotte!) in ogni ambito sociale ed economico. Il tutto si realizza e si compendia applicando le teorie economiche elaborate da J.M. Keynes, l’economista che meglio e prima di ogni altro assegnò allo Stato il compito di fungere da “programmatore sociale”, vale a dire, di utilizzare un mare di denaro per sorreggere e correggere la produzione di beni e servizi, nel vano tentativo di garantire la massima occupazione. Keynes viene spesso fatto passare, erroneamente, per un liberale ma fu ideatore dello Stato onnipresente. Oggi l’economista Mario Draghi ha ricevuto, dalle mani del Capo dello Stato Sergio Mattarella, l’incarico di formare un nuovo governo. Ebbene, l’ex presidente della Bce fu allievo di economisti keynesiani e crebbe a quella stessa scuola di pensiero. A coloro che si lasciano andare a facili entusiasmi intorno a questo nome, sommessamente ricordo che non è un liberale né tantomeno emulo di Luigi Einaudi e del liberalismo economico.
*già parlamentare