di Mariantonietta Losanno
Lorenzo è un avvocato scorbutico e diffidente, che ha scelto una professione che gli ha permesso di non essere giudice nella speranza di non essere giudicato. Ormai, sembra non riuscire più a provare del vero affetto per coloro che sono sangue del suo sangue, fatta eccezione per il nipotino Francesco. A riaccendere l’aridità dei suoi sentimenti è la conoscenza (inaspettata e fortuita) di una famiglia appena trasferitasi a Napoli accanto al suo appartamento: in particolar modo, il legame con Michela, lo pervaderà in modo sorprendente. E un evento ancora più inatteso creerà la possibilità di recuperare la capacità di amare.
“Non ha niente a che fare con l’ amore. È la capacità di tenersi per mano senza altri scopi. Oggi è difficile avere un contatto fisico con i figli, figurarsi con gli adulti: il mio ha quarant’ anni ed è a sua volta padre. Mia nipote ha 13 anni ed è difficile prenderle la mano. Tutti avremmo invece bisogno di un gesto così. Non è solo una mano che tocca un’ altra, ma è un’ anima che tocca un’ altra anima”: così ha descritto la “tenerezza” Gianni Amelio, regista del film liberamente ispirato a “La tentazione di essere felici” di Lorenzo Marone. Quella che a volte viene erroneamente definita come “pietà” o “compassione” (dall’accezione in senso dispregiativo “fa tenerezza”) è, in realtà, la necessità di riuscire ad emozionarsi, di sentire un contatto, di provare ancora qualcosa. È la paura di non essere più amati, ma anche quella di non sapere più come amare nel modo giusto. Gianni Amelio rielabora la materia letteraria di partenza in modo personale realizzando un film per certi versi inafferrabile, che ha lo stesso fascino di una melodia o di una poesia, che si presentano inaccessibili per alcuni e per altri così facilmente decifrabili. “La tenerezza” è un’opera intima, che cammina intorno al dolore e cerca di entrarci dentro con coraggio e con paura. Tutti i personaggi hanno una caratterizzazione forte: attraverso i dialoghi e gli sguardi traspare verità e desiderio di essere amati che è, appunto, voglia di tenerezza. Renato Carpentieri regala a Lorenzo tutte le sfumature di un personaggio abituato ad essere arido sul lavoro e in famiglia, ma che scopre una profonda empatia, come una sorta di “riscatto personale”. Lorenzo, però, fa fatica a perdonarsi al punto di recuperare la tenerezza perduta – quella nei confronti dei suoi figli – ma sembra riuscire solo ad “accettarne” una nuova, persino più forte del vero legame consanguineo. Elio Germano lascia trasparire la sua rabbia repressa in modo così tangibile che sin dalle prime scene fa presagire delle tragiche conseguenze; Giovanna Mezzogiorno esprime la durezza che le è stata trasmessa, ma si sforza di tenere in piedi i suoi legami per non perdere umanità; Micaela Ramazzotti è la “più tenera” e la più fragile emotivamente, data la sua eccessiva ingenuità.
Amelio, nella cornice di una Napoli insolita che unisce modernità e passato, indaga i sentimenti: fragili, forti, irrazionali, misteriosi. Il regista calabrese parla di solitudine, di accettazione attraverso un ritmo lento, forse anche pesante per l’eccessiva nostalgia, ma profondamente vero. “La tenerezza” è un ritratto personale che Amelio fa della società: nonostante gli sbagli, le cattiverie e i rimpianti, si ha sempre il bisogno di tornare in un posto sicuro, in cui trovare appoggio o comprensione, come se si cercasse un antidoto alla crudeltà del mondo che ci circonda. “La tenerezza” è l’espressione di un cinema che “fa resistenza”, che si immerge nelle debolezze umane con “garbo”, che affronta la maturazione dei sentimenti. Il regista ci regala un film delicato (perché pieno di amore, in un’accezione ampia) e crudele (perché profondamente lucido), che ci insegna ad insistere – e a resistere, appunto – perché ci si può sempre ritrovare.