LE INSIDIE DEL PIANO

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Giancarlo Bedini e1610021149432 LE INSIDIE DEL PIANO      

      –          di Giancarlo Bedini           –                             

Le linee guida aggiornate della Commissione Europea sul Recovery Plan del 22 gennaio scorso, confermano quanto sia ridicola oltreché poco responsabile la rappresentazione del Piano come una mera ripartizione di fondi (mai nel suo complesso cosi consistenti) tra settori di spesa, per non dire tra categorie ed interessi politici collegati, che viene fatta circolare anche in queste ore. Basta soffermarsi su due aspetti assolutamente qualificanti, per comprendere la vera sfida che il paese ha di fronte e che, stante le premesse, ha molte possibilità di fallire.

Il primo aspetto riguarda il fatto che, come è noto, il Recovery Plan deve essere composto di investimenti e riforme. Le riforme non devono essere incluse però nel capitolo delle “condizionalità”, come se l’erogazione dei fondi per gli investimenti fosse “condizionata” all’adozione “estrinseca” e parallela delle riforme richieste dall’UE. Non è così: riforme ed investimenti sono considerate correttamente azioni concomitanti ed intrecciate, che si condizionano a vicenda nei risultati, per ciascun obiettivo strategico e per ciascuno dei campi in cui si dovrà intervenire (transizione verde, trasformazione digitale, crescita sostenibile ed inclusiva, coesione sociale e territoriale, salute e “resilienza” economica, sociale ed istituzionale). Le riforme, nella misura in cui incideranno nel lungo periodo, sono anzi la parte centrale del Recovery Plan e molti degli investimenti vanno intesi come funzionali ad esse, piuttosto che il contrario. Si tratta infatti di cambiare, a regime, i meccanismi di spesa, affinché quanto si spende risulti veramente efficace nei confronti dei bisogni e generativo di maggiore produttività. In sostanza, il vero “progetto” del Recovery Plan è uno e uno solo (non 50 o 53) ovvero quello che mira a recuperare capacità produttiva e produttività all’intero sistema economico italiano. Di questa fondamentale finalità, da ottenere con investimenti e riforme, i vari capitoli ed obiettivi settoriali sopra citati non costituiscono che le necessarie e politicamente inderogabili declinazioni.

Ma in cosa consistono queste “riforme” delineate nelle linee guida europee? Nelle solite ricette che vogliono imporci “austerity”? Niente affatto, in realtà sono le riforme che servono all’Italia da decenni ma sulle quali, nonostante qualche sforzo, non sono mai stati raggiunti risultati veramente apprezzabili: pubblica amministrazione, giustizia, fisco e riduzione dell’evasione fiscale, welfare universalistico, politiche attive del lavoro, per citarne solo alcune. Dovremmo realizzare ora in pochi anni quello che non siamo riusciti a fare in un tempo lunghissimo. Ci sarà evidentemente bisogno di un forte surplus di determinazione, visione e capacità politica.

Il secondo aspetto rilevante ed impegnativo delle linee guida per il Recovery Plan concerne il modo in cui deve essere redatto il Piano e dovranno essere erogati i fondi europei. Si sa che i fondi saranno erogati a misura che gli obiettivi del Piano saranno raggiunti (e nei tempi prefissati) sia per quanto riguarda le riforme che gli investimenti. Gli obiettivi a loro volta devono essere espressi nel Piano attraverso specifici e misurabili indicatori, qualitativi o quantitativi, da raggiungere, nella loro completezza, entro il 31 agosto 2026. Per esempio, indicatori idonei potrebbero essere “numero di nuovi beneficiari del servizio asili nido”, “numero dei metri quadrati realizzati per sale di lettura di biblioteche”, “piena operatività del nuovo sistema di Information Tecnology” e così via. Non si tratta dunque di verificare quanto si è speso o quanti atti si sono adottati, ma quali risultati effettivi si sono raggiunti a beneficio dei cittadini. Possiamo eufemisticamente dire che il pianificare la propria azione sulla base di obiettivi prefissati attraverso precisi indicatori misurabili che indichino l’efficacia degli interventi effettuati non è mai stato nelle corde della politica e della pubblica amministrazione italiane. Anzi è sempre mancata persino la stessa capacità di misurare e la volontà di prendere per buono il fattore “tempo”. Dunque, se stiamo all’esperienza pregressa, sotto questo aspetto la “sfida” potrebbe già essere persa in partenza. Siamo di fronte qui oltretutto a un paradossale circolo vizioso: la riforma della pubblica amministrazione, che fa parte dell’attuazione del Recovery Plan, dovrebbe in realtà precederlo, perché costituisce la condizione stessa che il Piano abbia successo.

Abbandonare il campo dunque? No davvero. Ma la speranza è legata al fatto che si metta al centro il salto di cultura politica e amministrativa che è necessario.