– di Fernanda D’Ambrogio* –
1. LA COSTITUZIONE E I DIRITTI SOCIALI
Nella relazione alla Costituzione, il deputato Giorgio La Pira scriveva:…Quale compito viene dunque affidato alla nuova Costituzione italiana…? La risposta è evidente: riaffermare solennemente i diritti naturali — imprescrittibili, sacri, originari — della persona umana e costruire la struttura dello Stato in funzione di essi. ……….
E qui sorge un secondo problema: quali sono i diritti essenziali della persona verso la protezione dei quali deve dirigersi la struttura costituzionale e politica dello Stato?
Bisogna limitarsi alla riaffermazione di quei diritti naturali di eguaglianza e di libertà (civili e politiche) contenuti nelle Carte costituzionali americane e francesi? O, invece, accanto a questi diritti, cosidetti individuali, bisogna affermare i cosidetti diritti sociali che sono per la persona altrettanto essenziali quanto i primi….. Senza la tutela dei diritti sociali — diritto al lavoro, al riposo, all’assistenza, ecc. — la libertà e l’indipendenza della persona non sono effettivamente garantite. Da qui la necessità di integrare il sistema dei diritti della persona, introducendo in esso quel gruppo di diritti sociali che ormai appaiono, anche se diversamente configurati, in tutte le Costituzioni recenti……(La nascita della Costituzione – relazioni e proposte presentate nella commissione per la costituzione – I sottocommissione-relazione del deputato La Pira Giorgio sui principii relativi ai rapporti civili)
L’introduzione dei diritti sociali nel sistema dei diritti essenziali nella nostra Carta Costituzionale instituisce un sistema integrale dei diritti essenziali attraverso cui si rende effettiva l’autonomia e l’indipendenza anche politica della persona nel pieno rispetto della dignità umana.
Nella sua applicazione pratica, tuttavia, il nostro Welfare-state italiano presenta delle specificità che ne disattendono i criteri e lo spirito”(Ugo Ascoli, cit).
Nel nostro Paese, sin dalla fine del 1800, tutti gli interventi pubblici a fini sociali hanno sempre avuto come punto di riferimento una categoria, un ceto o un gruppo, facendo così assumere alle politiche sociali un carattere particolaristico, dove cioè le prestazioni appaiono differenziate a seconda del soggetto cui si riferiscono.
Dopo l’emanazione della Carta Costituzionale si è dato impulso in senso più universalistico del sistema, in primis nel 1949, allorché si decise che il collocamento della forza lavoro fosse una funzione pubblica. Con l’introduzione della chiamata numerica e non nominativa, lo Stato governava il meccanismo del collocamento, così promuovendo uno fra i più rilevanti diritti sociali di cittadinanza previsti dalla Costituzione, la tutela e la piena garanzia nella fase dell’ingresso nel mercato del lavoro.
Un altro intervento rilevante per superare la cultura particolaristica va sicuramente individuato nella riforma della scuola dell’obbligo del 1962, che ha creato un sistema di prestazioni uguali per tutti, ed infine, nella riforma istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale, con la legge n.833/78, con cui si è dato vita a un sistema prepotentemente universalistico.
Con la L. 833/78, in particolare, viene affermato per tutti il diritto alla tutela della propria salute, vengono previsti livelli minimi garantiti di assistenza sanitaria e prestazioni totalmente gratuite e finanziate dalla fiscalità generale: quest’ultimo aspetto, tuttavia, non ha mai trovato piena applicazione e ciò ha indubbiamente indebolito l’impianto universalistico complessivo. Con la legge 30 aprile 1969, n. 153, poi, venne istituita la pensione sociale e cominciò a far breccia nella cultura previdenziale italiana l’idea che anche il cittadino sessantacinquenne, pur senza aver maturato con il proprio lavoro il diritto a una pensione di vecchiaia, se sprovvisto di mezzi, avesse diritto a tutele da parte della collettività.
La L. n. 153/69 aveva dato vita a uno strumento straordinario per contrastare l’indigenza e la disoccupazione a soccorso di una disabilità che potremmo definire di natura “sociale”.
Tutte le citate riforme, tese ad assicurare la tutela delle fasce deboli e la realizzazione dello stato sociale hanno, tuttavia trovato il loro limite in quella cultura clientelare, da intendersi quale raccolta del consenso elettorale attraverso lo scambio di beni e servizi selettivi a individui o gruppi ristretti in cambio del voto.
La particolarità del nostro sistema clientelare è che beni e servizi teoricamente universalistici – cioè che andrebbero distribuiti in base a criteri impersonali di bisogno, di merito o di precedenza – vengono piegati a criteri di convenienza individuale sia dell’elettore che dell’eletto.
Ciò configura una privatizzazione di beni e servizi pubblici e costituisce una patologia democratica. Un classico esempio nella storia di questo Paese, è rappresentato dalle pensioni di invalidità e dai sussidi di disoccupazione in agricoltura, che hanno rappresentato una delle poste più significative dello scambio clientelare in gran parte delle regioni italiane, non solo nel Mezzogiorno. Altra caratteristica delle politiche sociali nostrane è costituita dal modello dualistico di Welfare, consistente nella differenziazione di interventi socio-assistenziali alle Regioni, sia per quantità che per qualità, a conferma di un dualismo territoriale, profondamente consolidato nel comparto dei servizi sociali alle persone.
Se volgiamo il nostro sguardo alla Sanità, le ricognizioni e gli studi sul funzionamento del Servizio Sanitario Nazionale giungono, sotto questo profilo, agli stessi risultati: il Sud soffre di un’offerta quantitativamente e qualitativamente inferiore rispetto al Centro-Nord in ragione di una diversa distribuzione delle risorse.
Lo stesso vale per le pensioni: il volume medio delle pensioni pagate ai cittadini del Centro-Nord risulta di gran lunga superiore al volume medio di pensioni pagate nel Sud: nel Nord soprattutto pensioni di anzianità, cioè pensioni ricche, mentre nel Sud hanno molto peso le pensioni sociali e di invalidità, cioè pensioni povere3.
Il quarto elemento che caratterizza il nostro welfare è forse quello più indagato ed evidenziato dalla letteratura, come pure dal dibattito politico sulla riforma del Welfare: la gran parte delle risorse pubbliche impegnate nel nostro sistema di protezione sociale è costituita da trasferimenti di reddito, consistenti in pagamenti unilaterali, quindi senza contropartita, effettuati da un soggetto, privato o pubblico, a favore di un altro soggetto.
In altri termini, la politica assistenzialista tout court, manipolabile clientelarmente (Ugo Ascoli, cit).
Infine l’ultimo punto: il nostro Welfare state si è sempre appoggiato su una cultura della famiglia profondamente patriarcale e paternalistica.
La riprova è nel fatto che solo trent’anni dopo la promulgazione della Costituzione, è stata emanata una legge sulla parità tra uomo e donna nel mercato del lavoro, nella quale si affermava semplicemente che a uomini e donne caratterizzati dalla stessa mansione doveva essere riservato lo stesso trattamento economico.
Sino agli anni ’80, epoca della cd. “rivoluzione femminista”, imperava la visione della donna “regina del focolare”, in una condizione coniugale contraddistinta da una sostanziale sottomissione, dedita alla cura dei figli, esclusa dal mercato del lavoro, per non mettere in pericolo l’assolvimento dei propri compiti “naturali”. Tali modelli culturali hanno esercitato a lungo la loro influenza nel nostro Paese.
Da qualche decennio si è assistito, invece, ad una inversione di tendenza e ad un ingresso massiccio nel mercato del lavoro delle donne, costrette, tuttavia, il più delle volte, a scegliere tra carriera e famiglia, in mancanza di una necessaria, profonda riformulazione delle politiche di welfare che tenessero conto della funzione sociale della maternità e del diritto delle donne di godere di (reali) pari opportunità in campo lavorativo.
Da quanto innanzi esposto, appare evidente che, nonostante l’avvio di processi importanti di cambiamento verso un sistema più universalistico di tutela dei diritti sociali, la mancanza di necessarie riforme, le storture del sistema e gli abusi perpetrati in nome di una politica clientelare e di tipo assistenziale, ne hanno impedito la piena realizzazione continuando a caratterizzare il nostro sistema di protezione sociale.
Una piena affermazione dei diritti di cittadinanza e una riduzione significativa dell’incidenza dell’esclusione sociale, come auspicato nella Carta Costituzionale, resta, pertanto, ancora inattuata, con una sostanziale elusione di quell’elemento finalistico che pervade la costituzione che, secondo Mortati è il criterio cui commisurare in ogni ordinamento il tipo di rapporto fra stabilità e mutamento. (Costantino Mortati, La costituzione in senso materiale, Giuffrè Milano, 1998)
2. DIRITTI SOCIALI E CAPITALISMO GLOBALE
A peggiorare lo stato (sociale) delle cose, il capitalismo, che costituisce il modello economico anche per il nostro Paese.
Il capitalismo, come è noto, è fondato sull’accumulazione privata della
ricchezza e sul perseguimento dell’interesse attraverso il mercato.
La concorrenza, che resta l’elemento fondamentale del capitalismo, è stata incentivata dal processo di mondializzazione dell’economia capitalista (I meccanismi d’autosviluppo dell’odierno capitalismo, in Economia e società tratto da:), le cui priorità sono la crescita economica e il neoliberismo anziché il welfare. Ciò ha comportato una incessante crescita delle diseguaglianze economiche, con conseguenti diseguaglianze nella cd libertà reale, che consiste nella libertà di un individuo di esercitare una scelta senza essere condizionato dal bisogno. Il fenomeno risale alla metà degli anni Ottanta, epoca in cui le disuguaglianze sono aumentate in tutto il mondo, e soprattutto, nell’ordine, in Messico, USA, Israele, Italia e Gran Bretagna.
Nel nostro Paese, la forbice tra ricchi e poveri è divenuta sempre più ampia e la disoccupazione ed il lavoro nero sono ormai una piaga difficilmente sanabile, con la conseguenza che tutti i principi sanciti nella nostra Carta Costituzionale sono stati disattesi: la dignità dell’individuo, le libertà personali sono stati inequivocabilmente violati in nome del capitalismo e delle sue regole.
Tra i fattori che hanno determinato il successo del capitalismo dopo la fine della seconda guerra mondiale, di importanza decisiva è stata l’emigrazione, con la migrazione di manodopera, precipuamente nel settore dell’industria, che ha consentito un ampio grado di flessibilità della forza lavoro, atteso che i lavoratori già residenti, che avevano beneficiato delle politiche di istruzione e di welfare, potevano ambire a posti di lavoro meglio retribuiti così liberando posizioni che venivano coperte da una forza lavoro migratoria molto meno esigente in termini di salari e di condizioni di lavoro.
Ma il capitalismo di oggi è notevolmente cambiato. Il lavoro che si importa è concentrato nei servizi e nell’agricoltura, più che nell’industria. La manodopera di importazione, soprattutto nel settore agricolo, è senza diritti e senza dignità, e sempre in nome del profitto.
Siamo ben lontani da quel sistema integrato di diritti posto a base della nostra Costituzione che contempla anche i diritti sociali.
Il capitalismo è sempre di più un capitalismo finanziario, globalizzato, che vede una nuova divisione internazionale del lavoro in cui la produzione è soprattutto concentrata in Cina e la finanza e le innovazioni restano una prerogativa occidentale, soprattutto americana: basti pensare ad Apple, a Facebook, ad Amazon, a Google, a Tesla.
Oggi viviamo tutti in un mondo che è stato digitalizzato da grandi aziende che attraverso la profilazione incentivano i consumi e potenziano il sistema.
La digitalizzazione guidata dalle aziende ha permesso ai governi di fare a loro volta vari interventi favorevoli al mercato e la globalizzazione si è sviluppata sotto il segno del neoliberismo causando divari economici spaventosi con aree con sacche di povertà enormi ed aree ricchissime. Questo ha creato instabilità economica e sociale, e in alcune realtà anche guerre, sicché oggi gran parte della popolazione mondiale migra non per scelta ma per sopravvivere.
In questo contesto, la politica ha lasciato dettare le regole al mercato ed ha realizzato una forma di economia molto fragile, basata su un modello di business di efficienza, che esclude taluni servizi essenziali, come ad esempio, la sanità pubblica.
3. IL SISTEMA SANITARIO NAZIONALE
La pandemia che ha colpito il mondo intero ha messo in evidenza le falle del sistema e induce a riflessioni di carattere generale sulla necessità di cambiare radicalmente questo modello di sviluppo che pone le sue fondamenta sul profitto, sul libero mercato e sulla globalizzazione sfrenata.
L’OMS 15 anni fa aveva annunciato che, soprattutto a causa del riscaldamento globale, saremmo andati incontro a stagioni di epidemie/pandemie.
In virtù di tanto, i governi avrebbero dovuto potenziare le strutture di bio- contenimento e la sanità pubblica.
Sottovalutato il problema, il risultato è stato che l’avvento della pandemia COVID 19 ha trovato impreparati, dal punto di vista sanitario, la maggior parte degli Stati occidentali, che non hanno strutture e risorse pubbliche adeguate, anche a seguito del processo di smantellamento e di privatizzazione del sistema sanitario pubblico, trasformando questo virus in una catastrofe senza precedenti e in una minaccia per l’insieme dei nostri sistemi economici.
In Italia, il piano sanitario nazionale non è aggiornato da 10 anni, nonostante la stessa OMS «abbia chiesto di aggiornarlo costantemente seguendo linee guida concordate». Infatti, approvato dalla Conferenza Stato-Regioni nel 2006, ha avuto l’ultimo aggiornamento nel 2010 dopo l’ultima pandemia mondiale, quella da H1N1, l’influenza suina.
Durante il periodo emergenziale, si sono resi evidenti, pur in regioni note per la qualità dell’offerta sanitaria, l’insufficienza della disponibilità ospedaliera in termini di posti letto, di servizi di emergenza, di terapia intensiva, di personale medico e sanitario e, soprattutto l’inadeguatezza di percorsi d’intervento in continuità assistenziale, frutto di una miopia strategica delle politiche di razionalizzazione economica basate non sul ridisegno dei processi produttivi, ma sul taglio “lineare” dei posti letto, scesi da 6,2 per mille abitanti del 1996 a 3,07 di oggi, e sui “tetti” ai fattori produttivi (personale, beni e servizi). (Avvisi ignorati, zero scorte di dpi, scarsa sorveglianza epidemiologica: il flop del Piano pandemico fermo a dieci anni fa di Giovanni Cedrone su sanità INFORMAZIONE del 1.4.2020)
A ciò aggiungasi la non trascurabile circostanza secondo cui circa i due terzi della differenza di spesa sanitaria del nostro Paese rispetto ai principali paesi europei sia ascrivibile alla minore rilevanza che i governi hanno attribuito alla sanità nell’impostazione delle loro politiche di spesa.
E’ indubbio che la drammatica vicenda dell’epidemia da Covid-19 indurrà cambiamenti epocali sotto il profilo comportamentale, sociale e economico. E’ evidente che la prima cosa da fare nel prossimo futuro è aumentare le risorse a disposizione del sistema sanitario nazionale, ma è altrettanto importante stabilire verso quali impieghi e soprattutto con quali regole. Sarebbe sbagliato, infatti, procedere senza aver prima disegnato una nuova architettura del modello sanitario che abbia a presupposto esclusivo la misurazione del beneficio per il consumatore finale e che, con riferimento a questa, definisca preliminarmente il modello di offerta sanitaria sulla configurazione dei vari segmenti di domanda.
In tal senso, si è ipotizzata una revisione dell’offerta ospedaliera articolata su unità produttive con un aumento del numero di posti letto per acuti nonché la previsione di strutture residenziali a diversa intensità di cura ed assistenza in grado di gestire il completamento dei percorsi di guarigione e di recupero funzionale Nel disegno così ipotizzato si è prefigurato anche un più nuovo e diverso ruolo dell’area della medicina generale, con la previsione di figure facenti capo ai nuclei di posti letto di prossimità e a centrali di continuità assistenziale, anche per la gestione domiciliare, con una rivisitazione in chiave evoluta del modello convenzionale tradizionale sulla base di principi e criteri premianti la produttività e il valore clinico generato per i singoli assistiti e per il sistema nel suo insieme.(Dopo Covid possiamo ancora dire che il nostro Ssn è uno dei migliori al Mondo? Sì, ma solo in parte di Enrico Bollero e Giuseppe Profiti su quotidianosanità.it del 12.6.2020)
Ma la ripresa di massici investimenti nel settore sanitario non può prescindere dal conseguente ripensamento del quadro finanziario, contabile e legislativo che li regola.
Ed infine, a parere di chi scrive, è di vitale importanza, occorre riscrivere le regole dell’organizzazione pubblica attribuendo finalmente i giusti spazi di azione alla competenza ed alla professionalità: abbiamo visto che senza la scienza non avremmo potuto combattere la malattia e senza le necessarie competenze non si possono assumere decisioni importanti nell’interesse generale.
È il momento di spazzare via i carrozzoni politico-clientelari in nome della sopravvivenza della specie e del nostro Paese ed è, altresì, d’obbligo l’auspicio di un cambio di rotta verso una politica dei diritti, che sostituisca la produzione privata capitalistica con una produzione pianificata e sociale, svincolata dalle regole del profitto e del mercato.