di Francesco Pagano, Consigliere Aidr e Responsabile servizi informatici Ales spa e Scuderie del Quirinale
Tra i tanti cambiamenti imposti dal 2020, l’introduzione di modalità di lavoro “flessibili” è uno tra i temi che ha trovato maggiore attenzione nell’opinione pubblica. È opinione comune, infatti, che dopo il lungo periodo di lavoro in remoto dettato dalla necessità di far fronte al lockdown imposto per contrastare la pandemia da Covid-19, lo smart working verrà adottato come formula “normale” sia in ambito privato, sia a livello istituzionale.
Durante questa fase di sperimentazione forzata, tutti i soggetti coinvolti si sono resi conto dei vantaggi legati alla recisione del vincolo di presenza sul posto di lavoro, riassumibili in un miglioramento della qualità della vita dei lavoratori (soprattutto in termini di tempo di vita) e di un conseguente aumento di produttività.
Se la previsione di una adozione massiccia della formula è condivisibile, il suo attraversamento richiede però di superare un equivoco: quello che milioni di lavoratori italiani hanno sperimentato in questi lunghi mesi non è affatto uno “smart working”. Si è trattato infatti di semplice “lavoro in remoto”, qualcosa di molto meno complesso (e meno innovativo) di ciò che rappresenta in realtà lo smart working. Con il lavoro in remoto, infatti, ci si limita a “spostare” la postazione di lavoro dall’ufficio al domicilio del lavoratore. Una trasformazione, quindi, che impatta soltanto sul luogo, ma non sulle modalità della prestazione e che è caratterizzata dalla stessa rigidità di un’attività tradizionale.
Il concetto di smart working, invece, è per sua natura flessibile e consente di variare le modalità dell’attività lavorativa su più fronti: sia in termini di orario, sia in termini di luogo in cui si opera. Il tutto, però, lasciando al lavoratore stesso la possibilità di scegliere come, dove e quando prestare la sua attività.
Insomma: un vero smart working non si traduce esclusivamente nella predisposizione di strumenti di accesso in remoto, ma in una vera riorganizzazione dei tempi e dei modi del lavoro, attraverso la creazione di un ecosistema che deve consentire la massima libertà a chi presta il suo lavoro.
Corollario di questa declinazione del “lavoro agile” è che lo smart working non consente, come alcuni sembrano avere inteso cogliendone solo i vantaggi economici, di smantellare la dimensione fisica dell’ufficio. Ne richiede piuttosto una rimodulazione, con caratteristiche diverse. Lo smart worker, infatti, avrà comunque bisogno di un luogo fisico in cui confrontarsi con i colleghi o collaborare faccia a faccia. Questo luogo fisico però dovrà avere caratteristiche diverse da quelle a cui siamo abituati, mettendo per esempio a disposizione sale meeting attrezzate per le videoconferenze, strumenti avanzati di Unified Comunication e Collaboration (UCC), infrastrutture progettate (anche a livello di cyber security) per consentire accessi in remoto e in mobilità.
Insomma: siamo di fronte a una situazione in cui ci sono tutte le premesse perché il passaggio allo smart working diventi realtà.
Ma dobbiamo avere la consapevolezza che non basta fornire un computer portatile ai lavoratori e spedirli a svolgere i loro compiti in salotto. La sua declinazione pratica richiede impegno, investimenti e pianificazione.
Soprattutto, richiede un salto evolutivo a livello culturale. Soprattutto in quei settori, come la Pubblica Amministrazione, che hanno storicamente una tendenza a essere refrattari ai cambiamenti. L’augurio è che tutto questo possa accadere.