“LA REGINA DEGLI SCACCHI”: UNA PARTITA VINCENTE PER NETFLIX

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di Mariantonietta Losanno 

“Nullum magnum ingenium sine mixtura dementiae fuit” (“Nessun grande ingegno fu mai senza misura di pazzia”), scriveva Seneca. Quante volte sono state associate determinate caratteristiche – o etichette – ad uno o più artisti considerati ribelli, narcisisti, egocentrici perché manifestavano atteggiamenti fuori dal comune? Se lasciassimo perdere i cliché e le indagini psicologiche (che faticano a distinguere la pazzia clinica da quella “creativa”), e iniziassimo ad osservare senza pregiudizi, probabilmente riusciremmo a percepire in modo differente le emozioni e i dissidi interiori di un artista. “La Regina degli Scacchi” (titolo originale “The Queen’s Gambit”, ovvero “Il gambetto di donna”, celebre mossa di apertura del gioco degli scacchi), è il racconto di una passione e di un talento (carichi di voglia di rivalsa), ma è anche e soprattutto la storia di una vita oltre il gioco. La miniserie prodotta e distribuita da Netflix è tratta dal romanzo di Walter Tevis (scrittore de “L’uomo che cadde sulla terra” e de “Il colore dei soldi”), diretta da Scott Frank, e ambientata nell’America degli anni ‘50. 

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Elisabeth Harmon, nel buio di uno scantinato in cui si rifugia dalle inutili lezioni dell’orfanotrofio, scopre un’innata predisposizione per gli scacchi, grazie al taciturno custode, suo primo grande sostenitore. Beth acquisisce la consapevolezza di essere una grande scacchista, ma impara anche – suo malgrado – a diventare dipendente dagli psicofarmaci, che crescendo abbinerà al consumo di alcolici. L’adozione segna un punto di svolta per la sua crescita personale e per la sua carriera: vittoria dopo vittoria, Beth inizia la sua scalata verso la sua affermazione come campionessa, dovendo battersi non solo con gli avversari, ma anche con i suoi vizi, con la solitudine e, soprattutto, scontrandosi con un momento storico in cui l’idea di una giocatrice donna era assolutamente impensabile. L’appoggio della madre adottiva – nonostante non parta con i migliori presupposti – si rivela indispensabile per la sua affermazione come scacchista e per il suo percorso formativo. %name “LA REGINA DEGLI SCACCHI”: UNA PARTITA VINCENTE PER NETFLIX

“Creatività e psicosi spesso sono compagne”, recita una delle battute della serie. Indubbiamente il genio c’è e la sregolatezza pure, ma “La Regina degli Scacchi” è molto di più di una mera rappresentazione di una mente geniale costretta a fare i conti con i propri demoni interiori. La serie si concentra sull’affermazione di un personaggio, sulla difficoltà di Beth di riconoscersi e di darsi un “ruolo”. Paradossalmente, la serie si definisce soprattutto attraverso quello che “non è”: certo, racconta la difficoltà di Beth di gestire il suo rapporto con l’alcol e gli psicofarmaci; affronta la questione di genere, senza però mai calcare troppo la mano, e soprattutto evitando di ostentare la partecipazione di un pubblico femminista. Il fatto che Beth sia una ragazza e che sappia imporsi in un mondo esclusivamente maschile ha la sua importanza (“le ragazze non giocano a scacchi”, dice il custode dell’orfanotrofio dove viene trasferita dopo la morte della madre), ma la serie non si trasforma in un prodotto di rivendicazione: anzi, paradossalmente, la maggior parte degli uomini con cui si scontra Beth non mostrano resistenza ed ostilità. Judit Polgar, scacchista ungherese considerata come la miglior giocatrice nella storia degli scacchi ha raccontato, durante un’intervista, di non aver ricevuto commenti idilliaci da parte degli uomini; anzi, alcuni, non le stringevano neppure la mano (gesto quasi obbligatorio in questo sport). Questa testimonianza – decisamente realistica e per niente sconvolgente – è molto diversa dall’esperienza di Beth che, non solo è ammirata da tutti i suoi avversari, ma riceve anche complimenti da chiunque. Scott Frank non si fa prendere dalla tentazione di trasformare “La Regina degli Scacchi” in un racconto ossessionato dalle questioni di genere: non sminuisce questo aspetto all’interno della serie, anzi, ma decide di focalizzarsi sul percorso di formazione di Beth. Viene anche ricostruito meticolosamente il contesto storico (un’America in piena guerra fredda con la Russia, principale rivale anche nel mondo degli scacchi): gli anni ‘50 tornano in tutto e per tutto, dalle auto, alle case, ai vestiti. Dunque, definendosi per quello che “non è”, “La Regina degli Scacchi” non è la solita storia del genio tormentato che sprofonda nel baratro della follia: Beth è un personaggio complesso, ma è prima di tutto una ragazza costretta a fare i conti con la solitudine (è questo, forse, il suo più grande fardello), con la costante paura dell’abbandono. A dispetto delle apparenze, “The Queen’s Gambit” non è (solo) una serie sugli scacchi; ma l’equilibrio, il ragionamento, la capacità di cambiare ogni mossa seguendo un disegno preciso e di prevedere le reazioni (non degli avversari, ma degli spettatori), sono gli elementi che la rendono una serie di grande spessore, grazie anche e soprattutto alla performance attoriale di Anya Taylor-Joy (classe 1996, ha iniziato a farsi notare nel 2015 nel film “The Witch” di Robert Eggers, ha poi avuto un ruolo importante in “Split” di M. Night Shyamalan, e di recente l’abbiamo vista nell’ultimo film Marvel, “The New Mutants”). 

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“La Regina degli Scacchi” è stata costruita così come si gioca una partita a scacchi: con ingegno. La memoria di ogni cinefilo associa inevitabilmente agli scacchi la partita giocata ne “Il settimo sigillo”, in cui la Morte personificata compare davanti ad Antonius Block: la partita rappresenta la metafora della presa di coscienza della fine della vita da parte dell’uomo, rappresentando, dunque, un momento di bilanci e di dubbi. Guardando in faccia la Morte si affronta anche la vita che si è vissuta fino a quel momento. Un modo, per Ingmar Bergman, di esorcizzare la paura: Block gioca la sua partita sapendo di doverla perdere, ma nell’arco di tempo in cui la gioca si pone come obiettivi la ricerca interiore (intesa come ricerca del significato dell’esistenza), e quello di salvare gli unici pezzi rimasti puri (quindi di scegliere la mossa giusta, per utilizzare termini scacchistici) nei confronti della corruzione del mondo. Ne “La Regina degli Scacchi”, la partita più importante è quella che Beth combatte proprio contro se stessa: in lei convivono una parte “alleata” e una “nemica”. Quello che prima nasce come suo rifugio, poi come sua ossessione, diventa infine il suo strumento di riscatto. Lo sappiamo tutti, la “gestione” di un talento può essere difficile: può diventare facilmente insostenibile, può andare anche sprecato se non viene coltivato ed indirizzato giorno per giorno. Beth, da ragazzina timida ed introversa, diventa una campionessa temibile capace di tenere testa prima di tutto a se stessa e poi a tutti i suoi avversari. E ne esce vincitrice: non solo per le vittorie ottenute, ma per aver acquisito maturità, per aver saputo accettare anche le sconfitte (nel gioco e nella vita) e per aver saputo costruire un equilibrio che la protegga dalle sue dipendenze e dai suoi eccessi. Che la difenda anche dal timore di perdere le persone care, gli amici, qualsiasi punto di riferimento. Gli scacchi sono il suo “luogo sicuro”, la sua rivalsa: la sua dedizione costante dimostra quanto sia forte in lei il bisogno di affermarsi come persona, dopo tutti i torti e le sofferenze subiti. Se Beth è la regina indiscussa della scacchiera (e del racconto), gli altri personaggi sono re, torri, cavalli, alfieri e pedoni: sono tutti funzionali al racconto e indispensabili al dispiegamento della tattica narrativa. 

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La storia di Beth Harmon viene presentata con un tono maturo, mai esagerato: attraverso il racconto di formazione la serie indaga il valore dei rapporti umani, la solitudine, il talento e la dedizione. Solo una volta compresi – e soprattutto accettati – i traumi del passato Beth potrà realmente vincere. Paradossalmente, più che il suo talento vengono mostrate le sue debolezze: le ferite irreparabili dell’infanzia e la voglia di affermarsi. Attraverso una scrittura raffinata, “La Regina degli Scacchi” è capace di analizzare l’inconscio della protagonista, mostrando la sua tendenza autodistruttiva scaturita dalle sofferenze subite. La serie fa anche un bel “gambetto” a tutte quelle produzioni forzatamente nutrite da una politica di genere, perché lavora sul tema con il giusto equilibrio, trattando la condizione femminile senza abusarne il significato e il valore. Lo spettatore partecipa e gioca la partita insieme a Beth, facendo il tifo non solo per la sua vittoria, ma per il suo riscatto: la tensione viene poi amplificata grazie all’uso delle colonne sonore, o anche solo grazie al semplice ticchettio dell’orologio che segna lo scorrere del tempo.

Una sfida contro tutti, ma in primo luogo contro se stessi.