– di PepPe Røck SupPa –
Non si sa mai bene cosa si intenda con la parola «felicità», e non mi riferisco a cosa ne pensavano i miei cari Leopardi e Proust, Alberto Moravia per esempio era arrivato alla conclusione che la felicità è impossibile perché «il solo fatto di avere un corpo è una forma di inquietudine». Figuriamoci poi la «felicità coniugale», i cui disastri sono sempre stati oggetti narrativi molto interessanti, delle vere prigioni psicologiche da esplorare.
Non regge nemmeno più il «chi si accontenta gode», altrimenti bastava il bicchiere di vino con un panino della felicità cantata da quel dinosauro di Al Bano. Piuttosto che la felicità del vicino è sempre più felice. Mentre la propria è sottoposta a tutte le leggi del mondo fisico, l’entropia vale anche per l’amore e la passione, a lungo andare tutto, per noia o per routine, si decompone in quella trappola chiamata «coppia» e di conseguenza la «vita di coppia», quasi sempre un vero incubo.
Quelli che iniziano a chiamarsi «tesoro» e «dicono frasi del tipo “stasera tesoro facciamo una buona cenetta”», terribili contrizioni dell’individuo per riuscire a essere in due, voglio dire non c’è mica più armonia e spontaneità nel tesoro facciamoci una buona cenetta!
Tra l’altro non soltanto gli altri sembrano sempre più felici di noi, ma è provato come la nostra felicità sia fondata soprattutto sull’infelicità altrui. Vale anche l’inverso: la nostra infelicità è determinata dalla contemplazione dell’altrui felicità. Come i risultati di un noto esperimento nel quale un lavoratore scopre in busta paga un aumento del dieci per cento. È felice, finché non scopre che i suoi colleghi lo hanno avuto del quindici.
Infatti dal punto di vista scientifico la felicità è stata analizzata come illusione evolutiva: poiché dotato di autocoscienza e propensione all’infelicità, l’Homo Sapiens è l’unico essere vivente a averne fatto un’ossessione. Nel Dna del nostro passato di animali inconsapevoli ci portiamo dietro dei circuiti neurali più sensibili alle emozioni negative che a quelle positive: l’inquietudine serviva a sopravvivere, la felicità a essere divorati. Sarà per questo che ogni favola finisce con «e vissero tutti felici e contenti», con quel rafforzativo «e contenti», cioè, non ho mai capito: se uno è felice quale senso avrà essere anche contento? E sarà per questo che la religione prescrive di non desiderare la donna d’altri, e grazie al cazzo penso, è l’unica desiderabile, altrimenti il tradimento non sarebbe all’ordine del giorno.
Attenzione, non vale solo per l’amore, vale perfino per il denaro, e per le crisi economiche da cui ci sentiamo tanto afflitti, soprattutto ora, dove siamo sotto attacco pandemico dalla tanto amata Natura. Gli psicologi David Myers e Ed Diener hanno analizzato i bisogni di felicità umana nei Paesi industrializzati e hanno osservato come l’asticella della felicità si alzi sempre di più. «Rispetto al 1957 gli americani hanno il doppio delle automobili per persona, e in più forni a microonde, televisore a colori, videoregistratori, condizionatori d’aria, segreterie telefoniche e scarpe da ginnastica di marca nuove per 12 miliardi di dollari l’anno. Allora, sono più felici del 1957? Certo che no».
Tuttavia Donald Campbell, psicologo evoluzionista studioso della «macchina edonistica» dei piaceri umani, è arrivato a una conclusione molto simile a un rimedio: «Il perseguimento diretto della felicità è la ricetta di una vita infelice». Insomma, cari miei, meno ci pensate, più avete la possibilità di essere felici.
Non potevi dire niente di più vero!
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