di Mariantonietta Losanno
Joe Gardner, dopo aver superato brillantemente l’audizione che l’avrebbe reso una star del jazz – con evidenti rimandi a “La la Land” – cade in un tombino e muore, ma solo per metà. La sua anima (il titolo del film gioca sul significato di “soul” anima e di “soul” come genere musicale jazzistico) rimane intrappolata in una sorta di realtà “ante morte”, un luogo in cui le anime ricevono la scintilla che consente loro di ottenere il pass definitivo per la vita terrena. In questa specie di spazio iperuranio le anime in attesa di incarnarsi completano la loro formazione e acquistano personalità sotto la guida di consulenti e di illustri trapassati (Muhammed Alì, C.G. Jung) detti “mentori”. Accanto a Joe c’è 22, un’anima che da millenni rifiuta di incarnarsi. Joe non vuole morire e 22 non vuole vivere: i due stringono allora un “patto” che possa soddisfare entrambi.
La Disney è la madre di “Bambi”, de “Il Re Leone”, “Cenerentola”, “La carica dei 101”, e tanti altri capolavori che hanno fatto sognare adulti e bambini. I film Pixar e Disney sono tra i più acclamati e popolari film d’animazione e sono stati considerati negli anni da subito dei grandi film, prima ancora che dei grandi cartoni animati. “Toy Story”, “Monsters & Co.”, “Up”, sono tendenzialmente apprezzati anche dagli adulti. Si tratta di opere che hanno sempre affrontato tematiche complesse e delicate seppur mantenendo un tono leggero e “incantato”. Le cose sono un po’ cambiate con “Inside Out” (2015) e “Coco” (2017), due film che hanno analizzato temi più “seri” (sempre attraverso storie che avevano protagonisti dei bambini); con “Soul” è stato fatto un ulteriore passo avanti, perché gli argomenti centrali del film non sono soltanto più “seri”, ma proprio da adulti (così come è adulto il protagonista del film). È paradossale come, per certi versi, “Soul” ricordi “21 grammi” di Iñárritu, una pellicola intimista, con un asse narrativo molto forte e che affronta con coraggio sia la morte che la rinascita. Iñárritu indaga i sentimenti, alcune volte colpendo lo spettatore e provocando sofferenza, ma consentendo anche a tante anime perse di ritrovarsi e di riaggrapparsi alla vita; Pete Docter analizza l’esistenza umana cercando di andare a fondo, liberandosi dalle manie di controllo, le incombenze e le casualità che caratterizzano il quotidiano (e che spesso si traducono in un’ossessione produttiva), per focalizzare l’attenzione sull’ “essenziale”. Come si riesce a trovare il senso della vita quando ogni certezza viene distrutta da un evento casuale? È poi tutto legato al caso o alla volontà del singolo? Lo spettatore si pone interrogativi e viene catturato dalla potenza emotiva di una pellicola che – proprio come “21 grammi” – comporta maturazione e la dolorosa accettazione che la vita possa essere anche sconvolta, rivoluzionata, persino distrutta.
“Soul” si sofferma su quella esasperante (ed esasperata) corsa frenetica verso un obiettivo che potrebbe poi non portare a quella realizzazione tanto desiderata. Un po’ come Damien Chazelle in “La la Land” ha mostrato come il fissarsi ossessivamente sul raggiungimento di un qualcosa comporti delle rinunce considerevoli, così in “Soul” Joe (solo dopo aver compreso il peso delle proprie scelte), si rende conto di quanto possa diventare avvilente l’idea che la realizzazione di un sogno abbia come conseguenza anche l’attribuzione di un significato alla vita stessa. Dunque, non ci troviamo di fronte ad un film per bambini: “Soul” è un’opera che si impegna – ma per certi versi si sforza – di rispondere a grandi domande della vita. La sensazione che si avverte dopo la visione del film è a metà tra l’illusione e la disillusione, la fiducia e la rassegnazione; l’equilibrio tra l’acutezza e il divertimento – regola della Pixar di un tempo – viene (in parte) minato. La narrazione non segue un’impostazione lineare e, se in tanti aspetti sembra che il messaggio sia “semplice” da comprendere (Joe e 22 sostanzialmente si aiutano a vicenda a comprendere i motivi per cui amare la vita e riflettono sul fatto che non debba esserci necessariamente una “scintilla” per dare senso ad un’esistenza), in altri è estremamente complesso. Nonostante il regista attinga molto dalle sue opere precedenti, sceglie di rappresentare un ritratto decisamente più metafisico e affronta i concetti di vita e morte con un tono molto lontano dal linguaggio dei bambini (e non solo).
“Soul” sostanzialmente parte dalla morte per tornare alla vita. Grazie a 22, l’anima più ribelle e refrattaria dell’ “ante mondo”, Joe può (ri)sperimentare ogni cosa: gusta del buon cibo, si gode la bellezza di un sorriso, ascolta con interesse la storia di un’altra persona, apprezza la melodia intonata di un artista di strada. Il film, dunque, vuole “ispirare a vivere”, in un modo anomalo, ossia partendo da un evento casuale che, se nell’opera si può prendere il lusso di concedere un’altra possibilità, nella vita reale no. È assolutamente valido ed interessante trasmettere il messaggio che non si debba vivere con l’ossessione di dover raggiungere un obiettivo che si ritiene “giusto”, perché, innanzitutto si potrebbe correre il rischio di non cercarne altri o, ancora peggio, perché potrebbe rivelarsi quello non confacente alle proprie esigenze. Però, “l’aldiquà – chiave del film – è la parte più laboriosa e per certi versi meno convincente. Quello che resta (e sarebbe ingiusto non riconoscerlo) è che “Soul” insegna come l’ispirazione possa arrivare anche dalla straordinaria semplicità di ogni momento vissuto. Non deve esserci necessariamente un preciso scopo (come nel caso di Joe la musica), ma può essere sufficiente anche il “semplice” desiderio di vivere. La pellicola, quindi, si presenta come una favola istruttiva con qualche incongruenza nella narrazione, ma che – se vissuta con lo spirito giusto – si lascia apprezzare per le innovazioni formali. Se in altri capolavori Disney e Pixar si trovava l’eccezionalità nelle avventure, in “Soul” è da cercare nella quotidianità. È un tipo di “animazione per adulti” che non convince a fondo perché non riesce a bilanciare risate, emozioni, riflessioni e temi filosofici; ma nonostante questo, dà modo di comprendere che cosa significhi vivere e “vivere per qualcosa”, insistendo sul fatto che le passioni che si inseguono non sono sempre ciò che ci definisce.
Pete Docter si serve di due anime agli antipodi per rappresentare non tanto la vita e la morte, quanto il desiderio di sentirsi vivi e l’apatia rassegnata: attraverso Joe e 22, “Soul” analizza tutte quelle semplici azioni che ognuno di noi compie ogni giorno e che consentono di sviluppare una prospettiva diversa sull’esistenza stessa. Forse la vera ambizione è apprezzare e godere di ogni singolo momento: la passione può sfociare facilmente in ossessione e può persino accecare ed imprigionare, se non si ha la facoltà di “tenerla sotto controllo”. La Pixar si è spinta “ai massimi livelli” – quelli di Iñárritu, addirittura – creando una metafora in cui è facile sia riconoscersi che perdersi.