di Ruggero Parrotto, Presidente iKairos – mentoring ed economia sociale e socio Aidr
Lo abbiamo pensato in tanti. Serviva una pandemia, con i suoi morti, e tutto il resto.
Se ne parlava da almeno trenta anni. Da quando furono sviluppate le prime pionieristiche iniziative di Telecom Italia, di IBM e di alcune altre aziende, disponibili ad esplorare e ad innovare, aiutate da alcuni studiosi di scienze sociali e organizzative: penso al compianto Patrizio Di Nicola, allievo di Aris Accornero, penso a Domenico De Masi, che da anni pungola e sferza con le sue analisi illuminate i decisori e i manager del nostro mondo del lavoro.
Da allora, nei convegni, nelle aule universitarie, nei dibattiti televisivi e nelle contrattazioni collettive, si è parlato tanto di telelavoro domiciliare, di lavoro mobile, di lavoro agile. Ma il tema, in Italia, non ha mai attecchito per davvero e in modo pervasivo. Le cause? Tante e tutte legate soprattutto alla fragilità della cultura imprenditoriale e manageriale in Italia. Perché la resistenza al cambiamento non è legata al censo organizzativo. Anzi, molto più spesso di quanto si immagini, chi teme o rifiuta o rimanda un cambiamento è proprio chi ha il potere, chi è consapevole che modificare un equilibrio significa rischiare, doversi mettere in discussione, dare spazio anche ad altro, e forse ad altri. La storia del telelavoro prima, e dello smart working poi, in Italia, è uno spaccato dei tanti luoghi comuni, delle piccole e grandi ipocrisie, delle piccole e grandi amnesie che hanno influenzato spesso le decisioni, condizionando per conseguenza le mode, i comportamenti e le scelte della gente.
Serviva una pandemia, con la sua drammatica e indimenticabile eredità, per far toccare con mano anche ai più integralisti che le soluzioni organizzative possono essere tante, e che le persone, le risorse umane, sono risorse e per di più umane; che hanno riserve di capacità di adattamento assolutamente non utilizzate, e che le prassi e le procedure devono essere strumenti utili, non alibi o vincoli.
Serviva il lockdown, per “scoprire” di colpo che gli obiettivi debbono essere chiari, che è importante interessarsi per davvero a cosa fanno i collaboratori, che chi lavora vuole capire e condividere le strategie, sentirsi parte di un obiettivo, di uno scopo. Che è bello e utile sentirsi e vedersi spesso, anche solo per chiedersi “come va?”.
Serviva un cambio di prospettiva, per riapprezzare il valore del tempo libero, il piacere di poter abbracciare un amico, l’importanza di visitare un museo o una piazza, il gusto di andare a teatro, di andare al mare, di offrire un po’ di tempo a chi sta male, a chi non ha alternative. E per capire che tutto questo rende le persone più serene, più equilibrate, più attente, più curiose, più resilienti, più orientate a risolvere i problemi.
Ma siamo tutti adulti (e speriamo presto anche vaccinati) per non ammettere che non è stata una scelta studiata, voluta, cercata, regolamentata. Non c’è stato il tempo. Si doveva fare tutto in pochi giorni. E in pochi giorni milioni di persone hanno iniziato a lavorare da casa, lontano dal luogo tradizionale. Molti si sono stupiti, perché le persone si sono abituate subito, come accade sempre in ogni cambiamento anche se non voluto. Ma sono emerse criticità, contraddizioni, incoerenze, di cui sicuramente sarà bene tenere conto, se non si vorrà perdere una grande opportunità.
Innanzitutto, il nostro sistema di lavoro, non solo quello della pubblica amministrazione, è ancora troppo basato sulla cultura del compito e non del risultato. Qualche passo avanti si è fatto, ma siamo indietro. Lavorare da remoto ha ovviamente acceso un po’ di enfasi sull’importanza delle competenze, del saper fare, del saper risolvere, ma il potere manageriale non illuminato incombe minacciosamente. E qui, le aziende che sono più avanti, i sistemi imprenditoriali più attrezzati dovranno e potranno fare cultura. Finiranno per promuovere e favorire una rivoluzione che potrà portare benefici a tutti.
Ma vi è anche un altro aspetto che coinvolge le persone, da osservare con attenzione e semplicità: le nostre case non sono state pensate per essere luoghi di lavoro. Almeno nella gran parte dei casi, le persone non hanno spazi sufficienti per concentrarsi, e per lavorare bene. Far coincidere il luogo di lavoro con il luogo del riposo, dello svago, degli affetti, degli incontri amicali, non è giusto, non è bello e, come iniziano a dirci i medici del lavoro, non è neanche sano. Non lo è per chi lavora, e in particolare per le donne, chiamate di solito anche ad attività di cura e di assistenza familiare, in misura ancora sproporzionata rispetto agli uomini. Alla lunga, anche le imprese troveranno utile un nuovo equilibrio: si realizzeranno hub, spazi condivisi, luoghi ricchi di servizi, dove incontrarsi e condividere informazioni, progetti, partnership. Gli uffici tradizionali saranno ovviamente ripensati. E il tema dell’orario di lavoro, uno dei più dibattuti negli ultimi decenni, perderà la sua morbosa e spesso ingiustificata centralità. Il lavoro da remoto, per essere smart, dovrà sempre di più diventare una scelta, dell’organizzazione e della persona. E dovrà essere flessibile, conveniente, efficace e poggiare su sistemi tecnologici sempre più avanzati, ma anche e soprattutto su sistemi di fiducia, verificabili e sempre migliorabili. Sarà tutto più articolato, complesso, fluido. Governare tutto questo richiederà una grande apertura mentale, e una visione trasparente. Mettere al centro le persone non potrà più essere solo un format, uno slogan vuoto e usato a piacere. Sarà una scelta, inevitabile e straordinariamente conveniente.
E allora, può essere utile chiedersi: quale sarà il giusto equilibrio, una volta passata la pandemia? O ancora meglio, quale progressione andrà introdotta, atteso il fatto che il ritorno alla auspicata e cosiddetta “normalità” sarà inesorabilmente graduale? Quali sono i rischi già presenti e quelli futuri? Per quanto tempo si può convivere con una emergenza? Che aiuto possono dare le tecnologie? Quali limiti è giusto introdurre? Quale formazione è opportuno mettere a disposizione dei capi e dei professionisti che lavoreranno da casa ancora per molti mesi? Quali competenze vanno rafforzate? Quali indicazioni, quali suggerimenti, quali accorgimenti sarà importante mettere in atto per evitare che una grande opportunità come questa rischi di trasformarsi in un boomerang, in un fallimento?
Di sicuro non basterà “fare due giorni a casa e tre in ufficio”. Significherebbe banalizzare i problemi e le opportunità.
Non stiamo parlando di una semplice novità. Stiamo parlando di un grande cambiamento. Probabilmente epocale. Vanno ripensati i modi di lavorare. Non solo i luoghi. Ma anche quelli. Vanno ripensati i sistemi di mobilità, i luoghi di incontro, i tempi e i modi del lavoro sempre più integrati con i tempi per il riposo e per la cultura. Vanno sfruttate, ma anche governate, le straordinarie opportunità che offre l’innovazione digitale. I sistemi Paese, i sistemi industriali, i sistemi organizzativi, i sistemi di rappresentanza sindacale, i sistemi formativi saranno tutti coinvolti da questo cambiamento.
Serviranno risposte diversificate: perché le necessità e i problemi sono complessi.
E intorno ad un tavolo virtuale, immaginario, devono sedere esperti e decisori: innovatori, sociologi, psicologi, architetti, medici, ingegneri, manager, sindacalisti. Giovani e persone con esperienza. Se si vorrà cogliere questa opportunità, se si vorrà uscire prima e meglio da questa incredibile e delicata situazione, se si vorrà onorare la morte di tante persone, allora l’umiltà e la creatività delle donne e degli uomini dovranno fare la differenza. Serviranno osservatori, fabbriche di idee e di progetti, laboratori, centri studi ed hub di pensiero applicato.
Sicuramente, serviranno tanti cuori intelligenti, con storie, competenze e sensibilità diverse, ma tutti mossi dalla voglia di alzare lo sguardo e lasciare un segno bello nella storia dell’umanità.