– di Nicolò Antonio Cuscunà –
Con o senza la Pandemia, i giovani e il loro essere, rispetto alla società degli adulti, erano, sono e saranno sempre un “problema” insoluto! I giovani soprattutto in questo momento storico stanno sviluppando poca attenzione e così come accade per la terza età, sono costretti a subire decisioni estranee e lontane dal LORO modo di essere. Giovani e anziani, collocati l’uno di fronte all’altro, rappresentano distanti generazioni che ahimè sono diventati un “problema” da risolvere rapportandolo col miglior risultato: costo/benefici. Giovani allattati da una società di “massa”, forzatamente proiettata al livellamento globale e schiavizzata all’economia del libero mercato. Per ugual motivo, gli anziani, sottratti anche agli intimi affetti di sangue, appaiono peso, zavorra, ingombro da sistemare col minimo delle spese. Entrambi sono stati estromessi dai luoghi decisionali del loro destino, costretti repentinamente a subire limitazioni e restrizioni rispetto alle tradizioni e costumanze. Restrizioni sterili e dannose imposte LORO dalla società dei consumi che li ha resi numeri e peso.
I giovani senza diritti, neanche quelli sanciti dalla Costituzione, sono solo utilizzati come specie ittica dallo scarso valore commerciale e utili come mangime per appetiti politici. Sempre i giovani criminalizzati nelle scelte ideali ma anche in quelle di moda e di costume. Schiavizzati da droghe reali o presunte. I giovani carne da macello nelle guerre volute dagli adulti, indottrinati, diventati criminali o eroi a seconda dello sconfitto o del vincitore di turno. Giovani con i loro problemi grandi e piccinini, vecchi o nuovi, comunque da risolvere e non a valle, ma a monte. Mai nessuno che s’interroghi sull’origine di tali problemi. Problemi di costume e di cultura, di moda o di miti, veri o falsi. Problemi esistenti da sempre, modificati, totalmente cambiati, incancreniti e perduranti. I cosiddetti “saggi adulti” invece di porre “ascolto”, come sempre e più di sempre, impongono repentine cure con medicine sperimentali, veri vaccini, dovuti sempre all’emergenza. Appellarsi agli interessi collettivi della maggioranza, cercando di salvare capre e cavoli (salute ed economia), si acuiscono solo i rapporti che, alla lunga, generano insanabili fratture.
Movida, adunanze, raggruppamenti, assembramenti, ogni Epoca ha i suoi “RITI” giovanili fatti d’intelligente socialità. Dissuasioni o modifiche necessitano capacità e conoscenza del “pianeta gioventù”. Buone maniere affidate alla saggezza e non all’arroganza calata dall’alto. Anche dichiarando disponibilità alla comprensione e alla soluzione di diritti negati (studio, lavoro, uguaglianza, libertà espressiva), non è certa la pacifica soluzione, ma è sempre meglio di niente. Imporre, limitare costumanze, mode e abitudini con DPCM o ordinanze sindacali sono inutili e sortiscono effetti peggiori del desiderato.
31 anni fa scrissi l’articolo che segue, pubblicato da due giornali locali e che sollevò un vivo dibattito. La circostanza scaturiva dal problema “scoppiato” in città riguardo “uso e costumi” della gioventù di quell’epoca. I giovani, senza distinzione geografica (casertani o di altre città del Pianeta Terra), ciclicamente diventano “bersaglio” da colpire, per coprire le colpe di chi, invece, avrebbe dovuto solo proteggerli.
Ieri come oggi, domani come ieri.
“La società che tratta anziani e giovani come “problema” è destinata a sparire”
I RAGAZZI DI VIA GEMITO NON ERA “IL CASO”
– Caserta 22 aprile 1989 –
Quando la periferia nord-est di Caserta era il rione Tanucci e da poco erano stati edificati il rione Vanvitelli ed il Tescione, l’attuale via Gemito, tracciata nello stesso verso di oggi, era già la meta preferita di tanti gruppi di ragazzi.
Era una strada sterrata che attraversava la campagna, larga sui tre metri, sopraelevata dal resto dei campi e alberata da bellissimi e maestosi noci.
In tanti vi hanno giocato agli indiani e vi hanno fumato la prima sigaretta comprata sfusa dal tabaccaio di Piazza Redentore.
In quella zona confluivano gruppi di ragazzi e si incontravano in un gioco che sovente diventava pericoloso: dalla scazzottatura al lancio di sassi. Tutti i gruppi avevano il proprio leader e si distinguevano per l’appartenenza zonale al rione o alla strada di residenza.
C’erano quelli del mercato e di via San Carlo con Franco detto “Ramon il messicano”; quelli del “Tanucci” e quelli delle “palazzine di via Ceccano”, a secondo delle occasioni, si coalizzavano per fronteggiare tutti o gli altri. Tutti insieme a più riprese osavano oltrepassare il muro di tufo che si affacciava su tutta via Ruggiero fino al macello e circondava la campagna per via Delle Ville fino all’angolo di Viale Beneduce con via Caduti sul Lavoro.
Organizzavano scorribande al rione Vanvitelli, isolato dal resto della periferia. Incontravano i ragazzi del “Tescione”, quelli più “turbolenti”, quelli che ti inseguivano fino al confine del rione Tanucci ed allora il pericolo di uno scontro fisico aumentava.
Nella “campagna grande” era normale andarvi a rubare le prime ciliegie, le noci fresche a fine giugno, oppure le arance ancor molto prima di Natale. Quante fughe a rotta di collo per i campi arati di fresco ed in mezzo agli orti di lattuga, per sfuggire al contadino armato di pertica!
Quei ragazzi erano il terrore dei coloni-contadini della “campagna grande”.
Quando non scorrazzavano per i campi, giocavano al pallone nella “campagnella”, attuale zona del Liceo Scientifico e del Provveditorato agli Studi.
La sera d’estate davano la caccia ai gatti tra le baracche dei mozzarellari al mercato (Piazza Matteotti), organizzavano partite notturne di pallone e battaglie con buste piene d’acqua.
Non erano in tanti, ma si facevano sentire ugualmente. Un brutto giorno gli tolsero la “campagnella”, poi tracciarono via Settembrini, scomparvero i noci dell’attuale via Gemito, venne edificato il P.co Gabriella col prolungamento di via G.M. Bosco.
Nacquero tutti i condomini delle traverse di via Caduti sul Lavoro, fu allargata via Delle Ville.
Non c’erano più ragazzini per giocare agli indiani, i gruppi si sciolsero, molti si spostarono su corso Trieste, altri cambiarono abitudini, altri ancora partirono per andare di carriera sotto le armi.
Percorrere “le vasche di Corso Trieste” era l’attività preferita e obbligatoria per tantissime generazioni di giovani casertani. Da Piazza Margherita all’angolo di via Colombo e ritorno, tutte le sere, sempre in tanti, si conoscevano per nome o almeno solo di vista.
Anche sul Corso si distinguevano i “gruppi”; tra questi primeggiavano i “figli di papà” del bar Gorizia con la sala da thè vietata ai minori di anni 18. Erano i più invidiati, perché avevano le moto più di moda, le auto sportive più costose, sempre contornati da ragazze facili da corteggiare.
Il Corso era percorribile nei due sensi di marcia e la sera scommettevano sulla vittoria del “Ducati Scambler” più truccato.
Gli interventi della polizia, chiamata da quanti volevano riposare in pace, erano ricorrenti, ma non nacque mai il “caso dei ragazzi di Corso Trieste”.
All’angolo di Nittoli e del Bar Ferrara (corso Trieste con via G.B. Vico e via San Giovanni) c’erano i “fascisti della Giovane Italia”, al bar Diadema gli “anarchici”, al bar Veneziana “quelli di sinistra”. L’impegno politico era d’obbligo.
Per contare, per esistere si doveva appartenere al gruppo.
Non c’era giovane negli anni settanta che non si schierava, almeno per simpatia, con il “Fronte” oppure con “L.C.”.
La sera sul Corso, il mattino davanti alle scuole più calde (Giannone e Diaz) i volantinaggi si sprecavano.
La domenica all’uscita dalla Messa dei Salesiani, si scambiavano il “segno di pace” a colpi di ombrelli, bastoni, sassi e cazzotti a non finire.
Comunque, era bello. C’era tensione ideale, facevano a gara per mantenere le posizioni tra i giovani e garantire l’agibilità politica nelle scuole, a prendere la parola nelle assemblee, a fare i cortei.
Si tappezzavano le strade di manifesti scritti con il pennarello, si affrontavano e si dibattevano temi politici, sociali e amministrativi, per le strade si organizzavano mostre fotografiche.
Si contestava il “Sistema”, si chiedevano strutture sportive, spazi sociali, aree verdi e agibilità per tutti.
Avevano le loro sedi, i loro luoghi d’incontro, le loro discoteche sempre scelte in base al gruppo politico; guai agli intrusi, erano botte da orbi.
Ma non è mai esistito il “caso dei ragazzi del Corso”.
Nessuno mai ha pensato di scacciarli dal Corso o togliere loro le sedi politiche o i luoghi di spontanea aggregazione. Nel frattempo, sorgeva tutta la zona nuova di Caserta (Zona Preziosi) dove c’è via Gemito.
Sorge il gruppo dei “Corbellini” (dal bar Corbelli), un misto tra il politico e la moda da seguire, tra gente del “Fronte” e figli di papà che seguivano a ruota. Schiamazzi notturni, corse in moto, qualche scazzottata, interventi della polizia.
Ma mai è nato il “caso dei ragazzi del bar Corbelli e di via G.M. Bosco”. Chiude il Corbelli, apre il bar Boys in piazza Cattaneo, il giro si allarga, scompare quasi del tutto la coloritura politica, avanza il qualunquismo. Ahimè non si fa più politica.
Dalla scelta ideale si passa alla drammatica realtà della ricerca del posto di lavoro. Finiti gli studi e gli scontri di piazza, la realtà appariva più grave di come descritta nei testi dei volantini. Nel contempo, gli ultimi colpi di coda dell’impegno politico dei gruppi lasciavano sul campo qualche colpo di arma da fuoco e di coltello; il tutto veniva sotterrato con le chiavi inglesi n. 36 lasciate ai “campetti”.
Il riflusso o il rifiuto all’impegno politico-sociale sopraggiunge inesorabilmente. Qualche piccolo sussulto nelle scuole con i Decreti Delegati, poi più niente.
Compaiono i ragazzi di via Gemito. Le prime proteste degli abitanti della zona.
Caserta già conosce da diversi anni il dramma droga; si fuma erba, compaiono le prime siringhe da tossicodipendenti lungo i viali della Flora, del P.co Del Corso e nei palazzi sgomberati per il sisma dell’80 nel Centro Storico.
La citta’ e’ cresciuta la fascia collinare è diventata la periferia. Via Gemito e Piazza Pitesti sono quasi il centro della città.
Sono nati i palazzoni con piani d’urbanizzazione studiati per l’ottenimento del massimo utile speculativo. Aumenta la popolazione, aumentano i giovani, aumentano i contatti tra i loro gruppi, sorge il grande concentramento di via Gemito, favorito anche dalla facilità con cui si può arrivare in questa arteria sia a piedi, sia in moto o in macchina: vi è sempre disponibile il parcheggio. Ci staziona la ragazza di Tuoro ed il ragazzo di via Acquaviva. Sono in tanti, con tanti problemi, ammassati l’uno sull’altro a contatto di gomito, moltissimi non si conoscono tra loro, non esistono i gruppi, scherzano, ridono e sono anche tristi.
Non hanno mai fatto male a nessuno: però si vuol creare il “Caso dei ragazzi di via Gemito” Nessuno li vuole si chiede la recinzione della striscia verde confinante con la scuola, convinti forse di eliminare il problema.
Si chiedono interventi di polizia e di pulizia, convinti forse di risolvere il “caso”.
Si chiede di spostarli in altra zona, come si si trattasse di arredo urbano, non considerando invece che, sono giovani con una potente vitalità e personalità. Giovani che rivendicano il loro spazio!
Sono in tanti, si incontrano per discutere, per scambiarsi l’ultima cassetta di musica, per amoreggiare, per polemizzare sull’ultimo impegno della Juve Caserta o per parlare di piani di studio, comunque, non fanno male a nessuno!
pur rifuggendo il politico, hanno fatto qualche scelta; non disdegnano di stare insieme, non sono divisi degli steccati ideologici. Forse perché non sono più viscerali nelle scelte, forse perché sono meno impulsivi, forse perché sono più razionali delle generazioni che li hanno preceduti.
Comunque, non fanno male a nessuno ed hanno il diritto alla propria libertà! Si afferma che la loro massiccia presenza riduce la libertà altrui, infastidisce i residenti, crea confusione nell’intera zona, altera gli equilibri del vivere civile.
Sono questi i problemi che si possono e si devono risolvere, ma non certamente scacciando i “ragazzi di via Gemito”.
Il centro Storico non ha spazi ed è caotico, le distanze in città sono azzerate, le scelte di moda e di costume creano massa, le zone nuove sono sorte senza spazi vitali, gli impianti sportivi sono pochi e privatizzati, via Gemito rimane una delle poche “alternative”. I ragazzi di via Gemito vogliono
crescere insieme rispettando il prossimo. Non vogliono essere il “caso” da risolvere con l’oppressione e con la criminalizzazione.
I loro problemi sono tanti ed uguali ad altri ragazzi di altre città, vogliono essere ascoltati e rifuggono le facili promesse.
I campi d’intervento sono tanti e complessi, spaziano dal pubblico al privato. I responsabili degli interventi vanno dall’Ente Locale, all’associazionismo, alla famiglia.
Il problema esiste, è bene che si intervenga con solerzia, prima che diventi veramente il “Caso drammatico dei ragazzi di via Gemito”!