di Mariantonietta Losanno
Sempre più registi e sceneggiatori si stanno muovendo sulla piattaforma streaming Netflix: l’abbiamo visto con Scorsese, Kaufman, Cuaròn, i fratelli Coen e con lo stesso David Fincher. Probabilmente, Orson Welles non ne sarebbe stato entusiasta e avrebbe cercato in tutti i modi di portare il pubblico davanti al grande schermo. Senza Netflix, però, “Mank” forse non sarebbe mai esistito, e se anche fosse esistito, non avrebbe avuto la risonanza che sta avendo. Soprattutto, non avrebbe generato il dibattito che sta generando. Perché, se è assodato che il regista di “Seven”, “Fight Club”, “Zodiac”, non abbia necessità di ottenere risonanza, un’opera del calibro di “Mank” (chiaramente un film per intenditori, per chi ha già una conoscenza della storia del cinema superiore alla media, per studenti, cinefili, o autodidatti acculturati), ne ha assolutamente bisogno. Che Netflix sia l’ancora di salvezza del cinema d’autore? Ovviamente no. Ma che garantisca una libertà produttiva impensabile in altri contesti, e che dia -specialmente in questo particolare periodo storico- maggiore risalto a numerosi prodotti cinematografici, sì. È l’idea stessa di fruizione cinematografica a essere “confusa” al momento: “Mank” è senza dubbio un film da sala, ma se non fosse stato distribuito su Netflix non avrebbe ottenuto l’attenzione che sta suscitando. In questo caso, accettiamo il compromesso, ma l’emergenza pandemica sta assestando un colpo che risulterà decisivo agli esercenti e alle sale cinematografiche.
“Mank” sta a Fincher come “C’era una volta a… Hollywood” sta a Tarantino: per entrambi i registi sono opere che fungono da “testamento”. Si tratta di pellicole in cui lo spettatore non viene “preso per mano” e accompagnato nella visione, si sente disorientato, addirittura “di troppo”: è come se si sentisse il bisogno -da parte dei registi- di fare i conti con se stessi, di omaggiare il cinema e contemporaneamente celebrare la propria carriera e lodare i propri maestri. “Mank” (per Fincher c’è anche un legame affettivo, dal momento in cui ha riportato in vita la sceneggiatura di suo padre Jack, deceduto nel 2003) e “C’era una volta a… Hollywood” -così come anche “The Irishman” di Scorsese- sono delle dichiarazioni d’amore al cinema, in cui è tangibile un senso di nostalgia e soprattutto di profonda cultura. Sono opere in cui non tutti i riferimenti vengono colti con facilità: è innegabile come sia essenziale avere una preparazione sufficientemente adeguata alle spalle per poterne apprezzare il valore.
Un film tra il classico e il moderno: “Mank” è la ricostruzione di un capolavoro della storia del cinema, “Quarto potere” (1941) di Orson Welles. Il film è passato alla storia come uno dei “capostipiti” di un certo modo di fare cinema. Oltre alla frantumazione del linguaggio convenzionale mediante l’uso sistematico – metafisico più che narrativo – del flashback, introduce nuovi modi realizzativi, che non si esauriscono soltanto negli accorgimenti tecnico-stilistici: molte sequenze sono state confezionate a misura della musica, interi episodi che investono un considerevole arco narrativo sono riassunti in poche e significative inquadrature. Il film si è presentato come un “fatto nuovo” perché ha impostato la narrazione cinematografica in un campo sin lì poco battuto, e teoricamente assai controverso: il film “psicologico”, che ha saputo incentrare come argomento della sua indagine una figura complessa e difficile. “Quarto potere” racconta l’inchiesta messa in atto dal giornalista Thompson per scoprire il senso delle ultime parole del magnate della stampa Charles Foster Kane (interpretato dallo stesso Welles), poiché il suo parere è che le ultime parole di un uomo devono spiegare la sua vita. La sua inchiesta lo porta alla conoscenza di storie diverse -raccontate da persone che amavano o odiavano Kane- ciascuna delle quali porta alla luce una verità parziale: il pubblico è l’unico giudice. Kane era insieme egoista e disinteressato, contemporaneamente un idealista e un imbroglione, un uomo grandissimo e un uomo mediocre. Tutto dipende da chi ne parla: Kane non viene mai visto attraverso l’occhio obiettivo di un autore, perché lo scopo del film risiede nel proporre il problema, non nel risolverlo.
Ottima la fotografia (Erik Messerschmidt), perfettamente studiata la musica ovattata e soffusa (Fincher si è avvalso di Trent Reznor, ormai suo collaboratore assiduo), magnifici contrasti luce/ombra che creano un’atmosfera noir, magistrale l’interpretazione di Gary Oldman nel ruolo dell’esuberante ed alcolizzato Mankiewucz, sceneggiatore dell’opera: “Mank” ricostruisce meticolosamente la storia di un’opera fondamentale analizzando al tempo stesso il periodo storico e catapultando lo spettatore nelle atmosfere di quegli anni. Perché “Mank” è anche e soprattutto un tributo agli anni Trenta (anni della Grande Depressione e precedenti al secondo conflitto mondiale) e al cinema di quel periodo. È una pellicola che omaggia il lavoro dello sceneggiatore (e, dunque, omaggia anche il padre di Fincher) e che racconta il rapporto tra due figure -Mankiewucz e Welles- unite dall’argomento cinematografico ma in continuo contrasto fra loro. Paul Schrader, regista di “First Reformed”, nonchè sceneggiatore di “Taxi Driver”, ha definito “Mank” un’opera che “tradisce il rapporto tra spettatore e personaggi”, perché si presenta come un’opera difficile, “elitaria”, che non tutti possono comprendere fino in fondo.
E “Mank” è, infatti, un’opera impegnativa ed impegnata: una pellicola che racconta la genesi di un film e di una sceneggiatura -soffermandosi sull’importanza delle parole- inserita in un contesto politico di transizione. Si allontana dalle opere precedenti di Fincher e dichiara apertamente il suo amore per il cinema, svelandone le dinamiche e i significati, le tecniche e gli sviluppi. “Mank” può essere inteso come un eco affascinante di un capolavoro immortale, ma anche come un’opera intimista, accurata e raffinata. Fincher si addentra nel racconto dell’ispirazione di una delle opere più importanti e riconosciute della storia del cinema, omaggiando Hollywood in uno dei momenti di passaggio più essenziali del settore. A detta di Gary Oldman, è stato “il ruolo più difficile di tutta la sua carriera, anche più del “Dracula” di Francis Ford Coppola”: il suo personaggio è un uomo oppresso da una società conservatrice e un’industria che vuole sempre di più ciò che lui non desidera. Oldman regala al pubblico un’interpretazione “sporca”, malandata ed irriverente proprio come il vero personaggio. “Mank” affascina per la sua estetica antiquata -nel senso piacevole del termine- e per il suo stile impeccabile e conturbante: la pellicola non fa sconti nel rappresentare Welles come un arrogante e megalomane promessa di Hollywood, disposto persino ad attribuirsi meriti di altri. La pellicola, dunque, si mette anche dalla parte dei “deboli” e degli sfruttati, perché è un film incentrato su uno sceneggiatore, figura da sempre sottovalutata. Ed è surreale che proprio l’autore di “The Social Network” – ovvero il “quarto potere” della nostra epoca – ci porti alla genesi dell’opera intramontabile di Orson Welles, rendendo giustizia al genio tormentando che si nascondeva nel suo vero autore, Mankiewicz. Il padre di Fincher vincerà un Oscar postumo per la migliore sceneggiatura originale?