ROMA – La Lingua Italiana è sotto attacco. È, questo, un dato di fatto supportato dal gran numero di anglicismi presenti ormai nella nostra lingua e dalla mancanza di un ente nazionale che si occupi stabilmente della salvaguardia della Lingua – come accade in Francia, Spagna e Svezia – e che ne vincoli l’uso davanti a termini stranieri.
Incontro a questa critica situazione va il Disegno di Legge n.1993/2020 recentemente presentato al Senato dal sen. Claudio Barbaro, in forze al Gruppo Misto e componente della Commissione Istruzione Pubblica e Beni Culturali a Palazzo Madama.
«La lingua italiana – si legge nella relazione che accompagna il DDL – rappresenta l’identità nazionale del nostro Paese, il nostro elemento unificante e il nostro patrimonio più antico che deve essere opportunamente tutelato e valorizzato. Le parole che usiamo ogni giorno sono un prodotto della storia e le regole grammaticali non sono esterne alla lingua ma ne costituiscono parte integrante. La mancanza di una “lingua comune” genera incomprensione ed esclusione ed è quindi socialmente negativa. […] È dunque necessario promuovere un modello di lingua relativamente omogeneo, fruibile da tutte le fasce della popolazione e rispondente all’esigenza di un’ampia comunicazione, senza per questo abbassarne il livello. Occorre, in definitiva, rimettere in circolazione il patrimonio linguistico nazionale, spesso abbandonato per pigrizia o per ignoranza».
«Per rendersi conto della portata di tale fenomeno – continua il Senatore – basterà guardare a quel 71 per cento di italiani che, secondo gli ultimi dati riportati nel Programme for international student assessment dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE-Pisa), riportano considerevoli difficoltà nella comprensione di un testo scritto in italiano di media difficoltà. Tale percentuale è destinata ad aumentare a seguito delle direttive emanate dal Ministero dell’istruzione negli ultimi anni: in particolare lo smodato potenziamento dello studio dell’inglese nei programmi didattici delle scuole di ogni ordine e grado, addirittura tradotto nell’insegnamento in lingua inglese di materie curricolari come la storia e la geografia, o di materie tecniche particolarmente sviluppate a livello internazionale. È evidente che questa anglicizzazione pressoché ossessiva produrrà nel giro di pochi anni un collasso dell’uso della lingua italiana, fino alla sua progressiva scomparsa che alcuni studiosi prevedono nell’arco di ottant’anni».
«Una riforma del lavoro è stata chiamata Jobs Act – continua – mentre il ricorso a fondi europei, per fare un altro esempio, viene definito Recovery Funds. Il linguaggio economico risente gravemente dell’intrusione della terminologia anglosassone, mentre il mondo del lavoro si è trovato a far fronte ad un fenomeno del tutto nuovo, ossia il fatto di rinominare in inglese alcune professioni e ruoli dirigenziali già identificati con un termine italiano. […] La mancanza di una legislazione atta a promuovere e conservare la lingua italiana dal punto di vista identitario, ha determinato un appiattimento e col tempo addirittura una regressione della capacità del popolo italiano ad esprimersi attraverso lo strumento più familiare».
«Il presente disegno di legge – spiega il sen. Claudio Barbaro nel testo – parte dall’affermazione che la lingua italiana è la lingua ufficiale della Repubblica, un principio fondamentale assente dalla Costituzione, che paradossalmente viene enunciato solo nella legge 15 dicembre 1999, n. 482, sulla tutela delle minoranze linguistiche storiche. Come conseguenza è previsto l’inserimento della lingua italiana all’interno della definizione del patrimonio culturale presente nel codice dei beni culturali e del paesaggio, di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, garantendo così i presupposti costituzionali alla tutela e valorizzazione della lingua italiana. Seguono gli articoli, da 2 a 5, che garantiscono l’utilizzo della lingua italiana nella fruizione di beni e servizi, nell’informazione e comunicazione, nelle attività scolastiche e universitarie, nonché nei rapporti di lavoro e nelle strutture organizzative degli enti pubblici e privati. Si tratta di previsioni rigide che però rappresentano un argine al dilagare dell’utilizzo di termini inglesi al posto di quelli italiani e uno strumento per rimuovere le barriere linguistiche che limitano la partecipazione dei cittadini italiani alla vita collettiva. […] Auspico che, partendo dalla presente legge, anche l’Italia voglia dotarsi di simili struttura, come un Consiglio superiore della lingua italiana sulla tutela delle minoranze linguistiche storiche, per garantire che qualsiasi intervento per adottare toponimi conformi alle tradizioni e agli usi locali, non diventi uno strumento per cancellare la denominazione italiana di tali toponimi».