di Mariantonietta Losanno
L’assassinio di una medium è il primo di una catena di delitti sui quali indagano un musicista jazz e una giornalista: il colpevole finirà decapitato in un ascensore.
“Amo fantasticare e desidero raccontare le storie dei personaggi che si trovano nella mia coscienza e che mi perseguitano da anni”: per Dario Argento, regista per eccellenza dell’ “horror in senso classico”, realizzare film si trasforma in un mezzo per esprimere le sue stesse paure. Quelli che il regista mette in scena sono incubi irrazionali in cui la logica cede il passo alle paure più profonde dell’inconscio: tutto ciò che ci spaventa nel profondo -anche se altamente improbabile o addirittura impossibile- può accadere. Dunque, anche se razionalmente ci si può rendere conto che molti elementi sono privi di una fondatezza concreta, ci si sente terrorizzati ugualmente. Paradossalmente, ci si sente ancora più spaventati. Una paura concreta, infatti, può accomunare tutti (un disastro aereo, un’aggressione, un’incertezza riguardo una situazione specifica, una fobia), ma analizzare le paure inconsce vuol dire mettersi a nudo: la prima paura (precedente alla paura stessa) diventa, quindi, quella di esporsi confessando i propri “segreti”. Dario Argento a quei “segreti inconfessabili” sa dare forma, addentrandosi così prepotentemente nella nostra intimità. Chiunque può spaventarsi vedendo un “mostro”, o può sobbalzare sentendo un rumore improvviso e preoccupante: sono sensazioni comuni, che in un certo senso si avvertono come normali proprio perché condivise. Immaginiamo, invece, di trovarci di fronte ad una sensazione nuova e che non suscita per tutti la stessa reazione: ci si sentirebbe violati della propria intimità, inermi di fronte al realizzarsi di un qualcosa che si credeva potesse esistere solo nella propria mente. Per spiazzare e catturare il proprio pubblico, al regista bastano poco più di dieci minuti -quelli iniziali- in cui, in realtà, si hanno già a disposizione tutti gli elementi necessari per risolvere il caso. Dario Argento, però, ama sfidare lo spettatore affidandogli il ruolo di “detective”; perché lo spettatore -come il protagonista- sapeva già ogni cosa, doveva solo ricordare. Infatti, il “maestro dell’orrore” sconvolge le “regole” del genere mostrando l’identità dell’assassino, sfruttando però un espediente artistico (la confusione tra un quadro ed uno specchio). La pellicola, dunque, diventa una sorta di “percorso a ritroso” -quello che si compie, ad esempio, quando si deve cercare un oggetto perduto- per cercare di decifrare/scorgere quei dettagli che potrebbero servire ad individuare il volto dell’assassino. Attraverso “Profondo rosso” Dario Argento dimostra come il cinema possa ingannare anche i ricordi degli spettatori: l’impatto emozionale delle immagini (ad esempio, il colore del sangue nel film è di un rosso pastoso e brillante, volutamente enfatizzato e risaltato in maniera poco credibile per attirare l’attenzione) è nettamente superiore al realismo dei dettagli, per questo risulta difficile riuscire a ricostruire razionalmente i fatti.
“Era soltanto uno specchio, non c’è mai stato un quadro qui. Quello che vedevo era solo un riflesso. Avevo visto la faccia dell’assassino”: attraverso verso questo incredibile -e letterale- gioco di specchi il regista costruisce una storia investigativa basata su false piste ed illusioni, divertendosi a terrorizzare lo spettatore e mostrando una realtà inimmaginabile ma al tempo stesso concreta. “Profondo rosso” è un pilastro del cinema dell’orrore. Oltre ad una regia impeccabile e ad una tecnica impareggiabile, la pellicola è meticolosamente progettata per confondere: è tutto un susseguirsi di ipotesi, tentativi di ricostruire o ricordare quello che può esserci sfuggito.
Nei suoi centoventisei minuti (che mantengono ancora oggi la loro estetica macabra e raffinata), la pellicola racchiude tutto quello che bisogna conoscere del regista romano. “Profondo rosso” è un’opera intensa (per le scene di culto capaci di imprimersi nella mente dello spettatore), personale (perché è racchiusa tutta la poetica di Dario Argento), e universale perché pone lo spettatore di fronte ad una realtà alterata (ma non ci troviamo ancora nel contesto soprannaturale e folgorante di “Suspiria”) dalla quale scaturiscono paure inconsce nelle quali è possibile immedesimarsi. Spinge lo spettatore ad abbandonarsi e a seguire il movimento di una danza violenta ed aggraziata: è una sorta di poesia del crimine. Pungente, ammaliante e cullante.