di Mariantonietta Losanno
“Che cos’è l’insonnia se non la maniaca ostinazione della nostra mente a fabbricare pensieri, ragionamenti, sillogismi e definizioni tutte sue, il suo rifiuto di abdicare di fronte alla divina incoscienza degli occhi chiusi o alla saggia follia dei sogni?”, Marguerite Yourcenar. La frustrazione degli insonni non ha eguali: è un dramma che sfocia in una profonda ossessione fino alla perdita di lucidità, oltre che -ovviamente- a quella del sonno. Dormire diventa l’unico pensiero che invade la mente, annebbiando tutto il resto; gli insonni, però, hanno la “fortuna” di non smettere mai di godere del tempo che ci viene dato, sfruttando la possibilità di godere di un “po’ di vita in più”. Tutto scorre così lentamente da anestetizzare i sensi, annientando ogni forma di piacere, così da far sentire l’uomo in totale solitudine. Della “setta” degli insonni fa parte Titta Di Girolamo (Toni Servillo), un uomo che vive da otto anni in un albergo in Svizzera, lontano dalla sua famiglia. È misterioso, si rifugia costantemente nel silenzio, è elegante ed apparentemente facoltoso. Sarà l’incontro con una ragazza a cambiare il corso degli eventi, e dei sentimenti.
Sorrentino costruisce un personaggio magnetico e conturbante, insinuando sapientemente il dubbio e fornendo solo piccoli e criptici indizi. Titta è un uomo in attesa, costretto a vivere “quel che resta della sua vita” in esilio, eseguendo degli ordini, obbedendo a delle regole: le emozioni gli sono negate. Ogni cosa è programmata, si nutre solo di “avanzi” di tempo. Il ricordo di un amico lontano lo rincuora, così come le telefonate ai figli (che non vogliono parlargli), ma sono soltanto delle attenuanti, delle false consolazioni. Cosa comportano per un uomo che vive in questo stato di apatia -una sorta di zombie- “le conseguenze dell’amore”, che incidenza hanno? Lo spettatore si illude (o viene illuso) che Titta possa tornare a respirare, a sconvolgere radicalmente la sua vita: quello che sembra essere un tentativo di redenzione è, in realtà, solo il preludio alla prossima discesa agli inferi. Ed è come se nel congedare la vita, Titta provasse anche un tenero sollievo, perché finalmente può “riposarsi”. Il desiderio sadico di abbandono verso l’ignoto affascina e spaventa: ci si lascia accarezzare dall’idea di potersi lasciare andare per poi trovarsi in una dimensione nuova, una sorta di estensione della realtà, dove ci si può sentire liberi e al sicuro.
La pellicola di Sorrentino è una sorta di viaggio, in cui la partenza è un “non-luogo” (e una “non-vita”), e l’arrivo è l’allietarsi dell’anima. È una destinazione comune a tutti quelli che vivono un tormento. L’unica soluzione ad una vita di continue sottrazioni sembra essere quella di sottrarre ancora di più. “Le conseguenze dell’amore”, secondo lungometraggio di Paolo Sorrentino, non può essere catalogato in un genere, per certi versi è inspiegabile, confuso: suscita la stessa sensazione di alienazione che prova il protagonista. Tutto sembra essere effimero: le parole, gli sguardi, i sentimenti. Il regista indaga la solitudine, realizzando un tipo di cinema intimista, in cui il fulcro di tutto è l’incomunicabilità. “Progetti per il futuro: non sottovalutare le conseguenze dell’amore”: anche Titta, cederà all’amore. E quello che sembra essere un abbandono dei sensi, è piuttosto una liberazione: la follia che l’amore lo porterà a compiere gli darà modo di sentirsi -paradossalmente- vivo. Il regista incastra abilmente un dramma intimista in una storia di mafia, fornendo così un nuovo spessore all’opera. Titta non sarà una vittima sacrificale, ma un eroe, passando dall’autocommiserazione alla libertà. D’altronde, “Per morire in modo rocambolesco ci vuole coraggio”.