di Mariantonietta Losanno
Keanu Reeves interpreta un avvocato integerrimo, senza scrupoli e abituato a vincere. Il caso che gli è stato affidato, però, è diverso dagli altri. È chiamato a difendere il diciassettenne Mike Lassiter, dall’accusa di omicidio nei confronti del padre. Il caso in questione si presenta diverso non solo per la gravità della situazione del minore, ma perché, l’avvocato è amico della famiglia, della madre del ragazzo, Loretta Lassiter, e anche del padre defunto, avvocato e suo collega: il suo unico obiettivo è, dunque, difendere Mike dalle accuse e impedire che la giuria lo giudichi colpevole.
Trama ben sviluppata, colpi di scena, efficaci le interpretazioni e i dialoghi (soprattutto quelli interiori dell’avvocato); tensione e suspense accompagnano lo spettatore per tutta la durata del film; la narrazione non lineare concorre a creare un’atmosfera cupa in cui niente è come sembra. Eppure, la giuria nei confronti di Mike ha tutte le prove necessarie per giudicarlo colpevole di omicidio: le sue impronte sul corpo e sull’arma del delitto, le dichiarazioni rilasciate alla polizia, e in più, il fatto che Mike non abbia più detto una parola dopo essere stato accusato. Tutto è contro di lui, non ci sembrano altre piste da seguire o dettagli trascurati. Tutto, però, può essere celato o distorto, e nessuno è chi dice di essere. Questa è la chiave del film: la riuscita dei colpi di scena, gli sguardi che fino all’ultimo fanno sospettare ma non danno conferma di ciò che realmente è successo. Pochi personaggi, poche scene di riferimento (oltre a quella del processo, c’è quella dell’omicidio, e un altro paio) portano in vita un altro mondo che lo spettatore ha il compito di rappresentare nella propria mente.
Interessante, poi, è anche la strategia utilizzata dall’avvocato per difendere il suo cliente, cioè quella di portare la giuria allo sfinimento e far nascere il desiderio di un ribaltamento dell’ultimo minuto, dopo le infinite prove e testimonianze contro il ragazzo. Lo spettatore è stimolato, la trama è intrigante e coinvolgente. Anche in un ambiente minimal, e con pochi interpreti, si può svolgere un buon lavoro: “Una doppia verità” è un film riuscito, nonostante non si presenti come un prodotto di assoluta originalità. Quello che funziona è l’attrazione nei confronti degli eventi che il pubblico avverte nel corso della narrazione: grazie ad una sorta di magnetismo, la curiosità di scoprire cosa che realmente accaduto si mantiene viva. In una realtà in cui ognuno nasconde la propria verità, Keanu Reeves -di nuovo nelle vesti de “L’avvocato del diavolo”– è pronto a lottare contro tutti pur di far assolvere il proprio cliente, nonostante questi comporti il ricorrere a metodi disumanizzanti. Il pubblico viene travolto da un turbine di bugie e verità negate, in un mondo in cui i concetti di giustizia e colpevolezza assumono un altro significato.
La pellicola diretta da Courtney Hunt insiste sulla difficile lettura della verità, sull’impossibilità di analizzare i fatti solo grazie ai presupposti e alle apparenze: il fulcro della pellicola -di modeste pretese, ma non per questo banale- è l’ambiguità di ogni personaggio, il fatto che ognuno di loro abbia una propria versione dei fatti che può essere attendibile o meno.