– di Mariantonietta Losanno – Bugie, tradimenti, frustrazioni ed isterismi: in “A casa tutti bene” non c’è nulla di sereno ed ottimista. Gabriele Muccino allestisce un cast corale (in cui compaiono anche i suoi affezionatissimi Stefano Accorsi e Pierfrancesco Favino de “L’ultimo bacio”) in un contesto volutamente amplificato. I cinquant’anni di matrimonio di Pietro e Alba sono l’occasione per riunire tutta la famiglia -allargando l’invito anche a ex mogli, figli, zii, cugini- su un’isola del Sud (Ischia); il mal tempo impedisce, però, il rientro il giorno successivo e tutti gli invitati sono costretti a prolungare il soggiorno (e l’agonia). Il luogo ameno che funge da punto di ritrovo è in netto contrasto con le dinamiche familiari: le famiglie sono tutte sull’orlo di una crisi di nervi, chi perché sente di aver fallito sul lavoro, chi perché non riesce a gestire le proprie insicurezze, chi perché non accetta di affrontare un tradimento e chi perché si trova alle prese con una malattia o con difficoltà economiche. Proprio quel luogo idilliaco in cui Pietro e Alba hanno speso il loro tempo migliore rappresenta l’innesco per l’esplosione delle tensioni latenti: emergono nuovi e vecchi rancori, drammi di diversa origine, nevrosi e follie generali.
Muccino d’altronde, mostra chiaramente l’intento di voler inserire i suoi personaggi in un contesto da cui non si può fuggire (sia geograficamente, perché a causa del temporale non si può andar via dall’isola, che metaforicamente, perché non si può scappare neanche dal proprio passato) per consentire loro di massacrarsi a vicenda. L’innesco è, dunque, costruito. È la realizzazione di un film corale (l’ennesimo, per Muccino) a risultare complessa; è tutto molto dispersivo e caotico, lo spettatore fa addirittura fatica a riconoscere i personaggi e a ricordare i loro nomi. Ci si sente in trappola; l’ambiente è asfittico e la precarietà economica, sentimentale ed esistenziale dei personaggi crea frustrazione anche nel pubblico che desidererebbe evadere da un contesto in cui si può dire che non esista una vita “normale”. Muccino calca troppo la mano, “urlando” i propri intenti e facendo urlare i personaggi stessi: sembra di assistere ai litigi estenuanti di Stefano Accorsi e Giovanna Mezzogiorno ne “L’ultimo bacio”. I suoi personaggi sono funzionali ad un racconto cinematografico a cui il regista sembra molto affezionato.
“A casa tutti bene” provoca già dal titolo e dalla locandina che è un insieme di falsi sorrisi, in cui tutti si prestano a interpretare una parte. Anche l’idea di riunirsi in un’occasione importante -solo perché non si può dire di no, data l’importanza dell’anniversario- risulta un’ipocrita dimostrazione di quanto tutto sia vacuo, consumato, irrecuperabile. Viene da domandarsi, allora, se si è ancora in tempo per essere felici (come recita Stefania Sandrelli in una delle sue ultime battute): oltre l’odio, la falsità e gli sfoghi rabbiosi, cosa resta? Basta mettere il cugino spiantato che elemosina un lavoro al pianoforte ad intonare pezzi intramontabili della musica italiana (“Bella senz’anima”, “Margherita”, “Dieci ragazze”) per fare tornare a tutti i finti sorrisi? Possiamo affermare, dunque, di preferire il Muccino americano: quello di “Padri e figlie”, “La ricerca della felicità”, “Sette anime”. Lo spettatore è stanco di assistere all’ennesimo superamento di quel limite di isteria che Muccino tende spesso ad oltrepassare; il motivo, però, non è negare che in tutte le famiglie si possa arrivare a litigi furibondi e a gesti inconsulti, ma è il cinismo avvilente che ne viene fuori e inevitabilmente sconforta. Muccino avrebbe voluto -forse- realizzare una commedia all’italiana di un altro spessore artistico (riprendendo modelli come Ettore Scola, Pietro Germi, Nanny Loy e Mario Monicelli), ma il risultato è troppo forzato: troppe urla che confondono, disturbano e coprono le parole e gli intenti. Le dinamiche che racconta Muccino esistono, ma ritenere che ci sia solo frustrazione, narcisismo e odio diventa troppo snervante da accettare. “A casa tutti bene” si presenta come un contenitore troppo pieno di cose, in cui spesso mancano degli spunti di riflessione.