– di Mariantonietta Losanno – Un ringhio di un pitbull apre il film: in pochi secondi si può già comprendere la brutalità che farà parte dell’intera pellicola di Matteo Garrone, opera successiva a “Il racconto dei racconti – Tale of Tales” (2015), vincitore di sette David di Donatello, e precedente a “Pinocchio”, l’adattamento del celeberrimo racconto di Collodi, interpretata da Roberto Benigni. In “Dogman”, il regista racconta una pagina nera della cronaca romana degli anni Ottanta: si tratta dell’omicidio, in seguito ad efferate torture, del criminale e pugile dilettante Giancarlo Ricci, da parte di Pietro de Negri, detto “er Canaro della Magliana”, perfettamente interpretato da Marcello Fonte, Palma d’oro al Festival di Cannes come migliore attore. Garrone però offre un racconto romanzato della vicenda da cui prende le distanze; il suo intento, infatti, è mostrare una periferia dimenticata dal mondo, dove ci sono soltanto violenza, soprusi e degrado.
“Viviamo in un Nuovo Medioevo. La violenza sembra dilagare in ogni angolo della nostra esistenza. Ascoltiamo notizie che ci lasciano sconcertati: stragi, sgozzamenti, uomini che annegano in mare, donne ammazzate dentro casa. Nulla di nuovo, in realtà. La violenza è sempre esistita: è nella natura dell’essere umano. Sono, piuttosto, gli strumenti per riuscire a rispondere alla brutalità che ci mancano. Siamo tutti in balìa dei meccanismi della violenza, come il personaggio del mio film. Mi domando da dove nasca questo male, come si diffonde, perché non riusciamo a lasciarlo fuori da noi”, ha detto Garrone. Le sue parole, in questo particolare periodo storico, assumono ancora più valore: gli ultimi avvenimenti di cronaca, infatti, confermano il pensiero del regista e sono un’ulteriore prova di quanto ormai il Male colpisca e pervada ognuno di noi. Non ci sono più limiti, riserve, né tantomeno pentimenti. Si agisce con ferocia e, per di più, con presunzione si difende tale ferocia: gli omicidi avvenuti nell’ultimo periodo storico sono la prova dell’ennesimo fallimento di uno Stato in cui esistono ancora il razzismo e l’omofobia, uno Stato che sembra non essersi mai evoluto.“Dogman” è un film assolutamente brutale e crudo, esprime la violenza in un modo che colpisce particolarmente, quasi come se la si avvertisse sulla pelle. Marcello Fonte è un personaggio complesso: tenta di mantenere una dignità, cerca di assecondare gli altri, si sottomette, pur di non perdere il suo lavoro e i momenti piacevoli con sua figlia. Il punto è che, in un ambiente del genere, in cui la bontà e l’altruismo non sono contemplati, chi è “puro” per riuscire a sopravvivere deve sporcarsi le mani, e mischiarsi con gli altri criminali. La rabbia e la solitudine di Marcello sono così forti e tangibili che lo spettatore soffre e patisce i suoi problemi con una partecipazione assoluta. Un uomo mite e gentile in un ambiente corrotto e disagiato non può che provare paura, e quando svanisce la paura subentra solo e soltanto la pazzia e la sconsideratezza.
Matteo Garrone è riuscito a raccontare un’Italia diventata terra di nessuno, in cui gli uomini sono al pari -se non peggio- delle bestie. La lotta per la sopravvivenza purtroppo non ammette compassione e tenerezza. Neanche dopo aver commesso l’omicidio e aver trasportato sulle spalle il trofeo Marcello ritrova se stesso, riesce solo ad avvertire l’indifferenza e il silenzio assordante. “Dogman” è un film di una potenza rara: riesce a combinare insieme la gentilezza e la furia, l’umanità e la bestialità, con estrema semplicità. Marcello ingenuamente e in maniera infantile chiede al suo aggressore che continuamente lo vessa, lo umilia e lo tortura: “Chiedimi scusa e la finiamo qui”. Fa quasi sorridere questa richiesta, come se chiedere scusa bastasse, o come se le parole o le strette di mano delle persone perbene avessero un senso in una realtà così squallida e sporca.