– di Francesco Aliperti Bigliardo –
“DIIINN!!!”
Come cavolo ci era finito in quel groviglio? Cosa c’entrava lui con quelle carcasse roventi e strombazzanti? Perché toccava proprio a lui trovarsi lì in quell’istante maledetto? Da quanto era parte di quell’orribile matassa? Quando ne sarebbe venuto fuori… ne sarebbe venuto fuori?”
“DIIINN!!!”
Non erano domande nuove queste. Per la verità, anzi, erano sempre le stesse. Le stesse che ogni giorno, all’ora di punta, gli affollavano la mente portandolo a ruminare il suo passato, a cercare di metabolizzare il convulso presente, ad immaginare, se mai ce ne fosse stato uno, il futuro.
“DIIINN!!!”
“Sono nato con il cordone intorno al collo, ecco perché mi sento ancora, continuamente, soffocare. Ecco perché non sopporto il traffico! Le strade sono arterie congestionate, nelle quali è sempre più difficile lasciar circolare un po’ di ossigeno! Gli altri invece ce la fanno, appaiono a loro agio, direi che se la godono. Aria condizionata, navigatori satellitari, emmepitre e così nulla di quanto accade oltre il parabrezza esiste più…altro che venire al mondo con il fiato corto! …eppure, se solo ci si preoccupasse di rispettare le precedenze, i semafori, di sciogliere i cordoni che ci impediscono il respiro…specie nelle ore di punta…”
“DIIINN!!!”
Vito era da sempre così. Il traffico, il suo lavoro, la gente, avevano solo potenziato e specializzato le sue attitudini. I ragionamenti sulla sua esistenza nel mezzo della vita degli altri, affondavano radici profonde e lontanissime. Si era accorto di essere Vito e non altri, dal momento in cui aveva, per la prima volta, cominciato a porsi quelle domande. Aveva costruito la sua intera personalità intorno ad esse. Poteva dirsi “esistente in vita”, perché legato ad una catena di interrogativi in continuo divenire. Così, ogni giorno, infaticabile, finiva con lo spremere le meningi fino ad accartocciarsele, alla ricerca di risposte che non gli sembrava possibile trovare in quel traffico, in quel groviglio nel groviglio.
“DIIINN!!!”
“Partire dagli effetti per salire sempre più su, fino ad identificare le vere cause, ecco perché sono venuto al mondo… è la mia sorte quella di prendermi cura di questo pasticcio! Il disordine è alimento per la comunità, li vedo i miei passeggeri. Si affrettano, si agitano, corrono nervosi, infastiditi, amareggiati e poi, tutti, indistintamente, si lamentano! Ma è solo il loro modo di raccogliere le forze. Il loro modo di cedere agli altri le proprie tensioni, le proprie frustrazioni. E’ lo stratagemma che utilizzano per tenersi compagnia, si passano il testimone, si trasmettono l’impulso. Drammatizzano perché ci provano gusto a montare il chiacchiericcio, a ingarbugliare la matassa… proprio mentre io mi affanno a trovarne il bandolo!”
“DIIINN!!!”
Gli studi certo, la sua formazione, l’educazione rigida, erano elementi che di sicuro avevano influito. Il suo amore per la lettura, il perverso ed infinito speculare sui fatti, l’idea di sentirsi uomo tra le bestie, avevano fatto il resto. La solitudine dunque, poteva dirsi una scelta o forse meglio, una conseguenza. Provava una strana e morbosa passione per quegli individui che giornalmente trasportava da un punto all’altro della città. Li detestava, faceva di tutto per starsene al riparo da loro, protetto dal cartello “Non parlare al conducente”. Eppure non avrebbe potuto staccargli gli occhi di dosso. Aveva bisogno di loro, ne era profondamente e letteralmente affascinato. Guardando alle loro manie, ai loro comportamenti scellerati, provava una sorta di tenera, velata, inspiegabile, necessaria malinconia. Il pensiero di quelle vite incasellate, che si muovevano coltivando l’illusione della libertà, del deragliamento, senza che mai si accendesse nel fondo delle loro coscienze una sensazione della triste, invariabile verità che stava alla base del loro destino, gli metteva addosso un irrefrenabile desiderio di riscattare le loro esistenze.
“DIIINNN!!”
“Sono così, perché così sono nato!” diceva tra sé, a buon titolo, Vito.
“DIIINNN!!”
Intanto il traffico non accennava a diminuire e la situazione diveniva sempre più intricata. Si fosse trattato di arterie, non ci sarebbe stato scampo, un intasamento dei vasi di quella portata, avrebbe decretato la morte immediata di quel individuo: “Infarto!” Invece quel corpo, restava sospeso in una convulsa e stucchevole agonia. Non solo si teneva in vita, nella sofferenza, nel lento morire quotidiano anzi, pareva trarre nuova energia. Qualcuno urlava, altri sbuffavano nervosi, altri ancora si agitavano come scimmie impazzite in giacca e cravatta, all’interno di gabbie insonorizzate, sempre più simili a salotti decadenti. Ancora un po’ di volume, un ritocco alla temperatura, lo studio di un percorso alternativo da provare domani, ed ecco un nuovo embolo partire in direzione del condotto da strozzare. Ecco ancora, inesorabile, l’ingorgo. Il sangue affluire e non trovare sbocco, ecco rimontare l’agonia, il vaso gonfiarsi sotto la spinta del cuore sempre più in affanno, sempre meno in sincrono con le proprie curve…stavolta però lui non ce l’avrebbe fatta ad aspettare che il tutto tornasse normale. Non avrebbe retto alla tensione, avrebbe aperto le porte e sarebbe sceso tra le lamiere calde e tremanti, avrebbe lasciato il volante del suo autobus e si sarebbe scagliato contro quelli là in fondo, con la mano saldata al clacson. Quelli che si infilavano, che cercavano un varco, che finivano puntualmente per spingersi sempre più al centro del vortice metallico, che ostinati si rendevano impossibile la vita, che contribuivano con il loro comportamento ad arricchire il mucchio intorno al nucleo, a gonfiare quella arteria. Ciechi, indolenti, determinati, spietati.
“DIINNN!”
“Sono uguali a quelli di ieri e poi a quelli di ieri l’altro, non c’è dubbio! Gli stessi, con facce diverse, forse. Li riconosco, sono il medesimo esercito, appartengono a quella unica razza, addestrata dalla stessa mano sapiente. Ascoltano, in un diverso ordine di programmazione le stesse canzoni di sempre. Non ci sono altre possibilità, in fondo…non esistono stazioni diverse. I loro nomi, quelli delle radio intendo sono nient’altro che cartelloni dietro i quali si cela un unico meccanismo universale. Rumore. Rumore per rubare l’attenzione, per rubare i pensieri, per imporre il silenzio della ragione. Tutti ad ascoltare i commenti alle notizie di quindici venti giorni fa. Tutto ripetuto cambiando le circostanze forse, per essere certi di ingannare anche i più svegli. Tutte le volte, punto e a capo, incessantemente, per scongiurare il pericolo di uscire dal vortice in cui questo mondo esiste. Sono ancora loro i bambini che seduti nei banchi, ripetevano ossequiosi le lezioni a memoria, e rispondevano “Presente!” all’appello della prima ora. Gli stessi che, gongolanti per il bel giudizio ottenuto, correvano tra le braccia delle rispettive mamme, gonfi di gioia per aver saputo, una volta di più, umiliare la parte più intima della propria anima. Avrebbero dovuto sgozzarle quelle mamme, piuttosto! Farle a pezzetti piccoli, come si fa con ciò che vorremmo cancellare per sempre dalla faccia della Terra. Ardere vive le loro carni senza più energia, piegate alla sudditanza e dedite all’obbedienza…ed invece, corrono i bambini, vanno dritti tra quelle braccia soddisfatte, procedono con la coda tremante, con gli occhi abbassati e la catena intorno al collo, a zittire ogni slancio. Ballano rispettose le loro coscienze, oggi! Corrono dalle proprie donne, dai propri amanti, dai rispettivi capiufficio, sventolando la propria pagella colma di meravigliosi giudizi. Hanno imparato bene la lezione e continuano a mandarla a memoria. Conoscono alla perfezione i passi e li ripetono automaticamente, ormai dimentichi del suicidio collettivo che giornalmente si consuma, negli edifici scolastici di tutto il pianeta. Pronti a riversare quel tremendo, abominevole insegnamento, su quanti verranno dopo di loro, pronti a ripetere l’ammaestramento di massa, in un tirocinio ipnotico, rutilante, rassicurante che comprime l’umanità tutta e la rende qualcosa di simile ad una bomba in attesa dell’innesco risolutivo, ad una arteria strozzata dagli infiniti emboli che giornalmente ostacolano la circolazione…
“DIINNN!”
Non era certo una vita piacevole quella di Vito. Ogni passo in una direzione si accompagnava a soste lunghissime, al termine delle quali, quasi sempre, seguiva un passo nella direzione contraria. Ripensamenti continui e sofferti mugugni, rendevano inutili i momentanei entusiasmi che pure non avevano mancato di motivare quel passo. Capitava così che producesse, nel chiuso delle sue mura, birra artigianale di buona qualità, senza mai riuscire a berne un solo sorso. Aveva scoperto che si poteva produrne, leggendo un libro sulla storia dei Fenici. Ne restò fulminato. Fu come se di colpo, qualcuno gli avesse rivelato che si poteva produrre in casa latte o meglio; acqua. Trovava incredibile questa possibilità. Prima di allora, aveva stabilito che la birra dovesse esistere in natura, che sgorgasse da una fonte imprecisata. Al limite, quella industriale, lui la considerava alla stregua della Coca Cola e, anche pensando a questa ultima ipotesi, si era detto che non doveva essere un processo facile da riprodurre in casa. Aveva provato più di trenta ricette diverse. Grano, malti a differenti tostature, riso, bucce di arancia, coriandolo, cardamomo, caffé, carbone, liquirizia, cannella erano solo alcuni degli oltre duecento ingredienti che aveva utilizzato. Metodo belga, da opporre a quello inglese, da comparare a quello tedesco, per trovare infine quello più vicino alle proprie esigenze, alla propria sensibilità, al proprio talento. L’assaggio però non gli interessava. Gli era sufficiente verificare che i suoi amici continuavano a chiedergliene. Erano loro, tutte le volte, ad azzerare le scorte, a restituire ben lavati i vuoti, a chiedere altre bottiglie, a suggerire nuove varianti e proporre ulteriori ricette. Lui niente, non ne saggiava, la sua soddisfazione stava piuttosto, nel lasciarsi coccolare dai profumi e dai colori delle trebbie fumanti. Dalla lentezza dei risciacqui, dal segreto dei tempi e delle temperature che consentivano l’estrazione più completa e perentoria degli zuccheri necessari al lavoro dei lieviti. I lieviti, già proprio quelli i più misteriosi di tutti. Quelli che andavano ossigenati, idratati, massaggiati alla temperatura più giusta per renderli utili al proprio fine, finalmente affamati, attivi, operosi, diligenti…come bambini nei banchi in attesa del proprio voto. Continuava a rosicchiare grani e malti, intanto. Quello doveva essere il solo assaggio della sua birra che si concedeva mentre portava a termine le complicate e laboriose fasi di preparazione del mosto. Avvertiva il privilegio di valutare di persona, la qualità del proprio sapere. Un sapere privo di enunciati. Simile a quello degli uomini antichi che avevano scoperto il potere di preservare gli alimenti posseduto dai grassi, di essiccare le carni, di tenerle nel sale, di produrre pane lievitato naturalmente, di servirsi delle muffe, dei vermi, del buio delle fosse, per conferire umori secolari alle pietanze che mangiavano. Tutto questa scienza e queste capacità con la forza dell’esperienza e della curiosità. Tramandando il patrimonio cumulato alle generazioni future. Insegnando quei riti millenari, senza imposizioni dirette, il più delle volte attraverso la pratica del silenzio e dell’osservazione muta e solitaria. Non aveva dovuto faticare più di tanto. La birra gli era venuta subito. Un po’ come gli era accaduto quando si era trattato di costruire gli ordigni esplosivi che teneva nascosti in cantina.
“DIINNN!”
Parlano della guerra, della rivoluzione, come se ne avessero fatto esperienza, come se davvero gliene interessasse qualcosa. La verità è che a loro non piace nulla veramente. Sanno solo fingere interesse. Pensano di essere ben informati. Si professano affamati e bisognosi di informazione. Di fatto non è così, neppure quella gli sta a cuore. Mangiano la prima cosa che gli viene servita. Nemmeno gli interessa sapere come accade che un pane lieviti. Al limite sanno descrivere la chimica del processo, ma non sanno cosa significhi maneggiarlo! Ecco perché un giorno lascerò definitivamente questo volante e me ne andrò in giro a raccontare il mio mondo impossibile…quello in cui tutto funziona in maniera più naturale, dove non ci sono ordini, né ritmi da assecondare. Dove si sa solo quel che si è sperimentato di persona. Niente più recensioni e critiche letterarie, si accettano solo opere originali! È questa la strada, lo so, alla gente, anche a questa gente, piace ascoltare le favole. Trascorrerebbero intere giornate a sentir parlare di pace e di serenità, di ideali giusti e di principi virtuosi… a patto ovviamente, che non gli si chieda di farne testimonianza con un’esistenza, magari, meno spettacolare ed un po’ più concreta…in un modo o nell’altro riuscirò a cambiarli, dovessi spezzargli le gambe con una mazza da baseball, li cambierò!”
“DIINNN!”
Aveva bisogno di uno spazio piccolo. Un seminterrato, uno sgabuzzino, un monolocale…qualcosa di pratico, nel quale piazzare l’impianto di produzione della birra, qualcosa di minuscolo capace di contenere una scrivania. Una bella insegna grande, colorata all’esterno…e dietro la scrivania: lui, con i suoi racconti di quel mondo, un mondo finalmente diverso. Ci avrebbe calato dentro un po’ di libri “buoni”. Idonei cioè, a tirar fuori gli spunti giusti. Evocare la memoria comune che da qualche parte doveva pur starsene rintanata. Qualche buon album di foto, qualche film, niente di impegnativo per carità, il minimo necessario ad invertire il senso dei loro ragionamenti, a renderli partecipi dei suoi intendimenti…
“DIINNN!”
“L’insegna avrà il fondo giallo, e sopra una bella scritta blu. I mondi Impossibili – racconti di tutto quello che non c’è – …roba da condividere, da sognatori, da farci una rivoluzione!!”
La mania del predicatore nel monolocale era solo l’ultima delle sue trovate. Ne aveva partorite di idee per dichiarare guerra al Sistema, il buon Vito. Aveva scritto canzoni, organizzato cortei, disegnato cartelloni, varato finanziarie, piani di risanamento, il tutto con lo stesso zelo, con la stessa precisione, senza lasciare nulla di intentato, studiando ed affinando ogni aspetto delle questioni fino ai minimi insignificanti dettagli…ed ogni volta, si era fermato, cambiando direzione e slancio, appena un attimo prima dell’assaggio, della rappresentazione finale.
“DIINNN!”
“Devo proprio cominciare da qui se davvero voglio dare attuazione ai miei ragionamenti. Ho bisogno di fare proseliti. Basteranno pochi anni di attività e poi saremo finalmente pronti. Ci devono essere persone che la pensano come me. Ho bisogno di alleati. Non posso piazzare ordigni esplosivi in solitudine. Finirei per essere paragonato ad uno dei tanti pazzi che affollano la Storia dell’uomo…insomma l’umanità esiste da prima del mio avvento, io sono nient’altro che uno dei tanti anelli che compongono la catena e poi gli amici non possono starsene lì a bere la mia birra e poi rifiutarsi di smaltire anche un po’delle mie bombe…”
Ordigni esplosivi… quelli ne aveva già a sufficienza. Non poteva però cambiare il mondo partendo dalla gente per strada. Le persone erano solo l’effetto di un lavoro studiato a tavolino. Quella gente non andava sterminata, andava piuttosto educata. Per dirla con le sue parole “Sono nient’altro che ottimi interpreti di canzoni scritte altrove” C’era allora, tutta una complicata strategia che attendeva di essere messa in atto. Una serie di attentati che colpivano il Sistema nei suoi punti più delicati. Dai cartelloni delle stazioni radio, ai centri di produzione e diffusione dell’Informazione e così via, passando per le Istituzioni della periferia, fino a giungere alle cariche più alte dello Stato. Dai monumenti della Finanza mondiale, ai nuclei del potere militare. Un’impresa niente male, qualcosa che somigliava molto all’idea di fabbricare in casa del latte o meglio…dell’acqua…
“Si può arrivare al suicidio per cose del genere. Bisogna ammazzare se stessi per cambiare davvero il Mondo. La coerenza del ribelle non può prescindere dal suo sacrificio finale. È l’uccisione di se stessi, l’estremo atto di coerenza che ogni ribelle deve compiere…non si è mai innocenti fino in fondo.”
Non aveva più paura di morire il buon Vito. Il lento inesorabile distacco da tutto ciò che a suo dire rendeva prigionieri gli “altri”, lo avevano trasformato in qualcosa di fluttuante. Era presente senza essere visibile. Gli amici, quelli ai quali regalava tutto ciò che produceva, erano in realtà fantasmi, facce, voci, sagome come quelle che vedeva incollate al clacson nelle ore di punta.
“La paura della morte è una malattia dell’uomo moderno, della cultura occidentale. È il prezzo da pagare per tutto ciò che ci siamo assicurati sulla Terra. Chi non ha niente come me, non ha paura della morte. La invoca piuttosto, come un balsamo. Nulla a che vedere con il terrore che vedo nei loro occhi da bovini a spasso per la città. L’idea di dover rinunciare ai loro idromassaggi, alle loro serate in compagnia del lusso dei loro cocktail d’onnipotenza a base di futuro radioso e ricchezza smodata, gli deve mettere nelle vene uno spavento tale che a volte, quando il rumore delle emittenti radio si fa più sopportabile, addirittura sembra di poterlo sentire. Come dargli torto? Deve apparire davvero troppo grande il balzo da compiere tra questa vita e la morte…un salto impossibile: la vertigine assoluta! Da quando non ho più paura di morire, è ogni giorno tutto dannatamente più semplice!”
Dalla sua rivoluzione sarebbe scaturito un mondo migliore, non c’è dubbio. Un pianeta nuovo, nel quale le cose accadevano senza che nessuno sentisse il bisogno di annunciarle! Era dunque questa la sua missione. Il destino aveva scelto lui, gli aveva affidato le umili mansioni del conducente di autobus, solo per tenerlo al riparo dai sospetti. Concedergli tutto il tempo necessario a definire in maniera organica, l’offensiva finale. Permettergli di prendere da solo coscienza del suo ruolo e delle sue potenzialità. Ancora qualche settimana dunque, al massimo un mese, o forse due…tre…il tempo di organizzarsi insomma, scegliere con cura l’insegna, gli abbinamenti di colori per darle la giusta, intensità, la più adeguata ed appariscente luminosità. Trovare un luogo sicuro, accogliente a sufficienza da ospitare comunità di giovani, famiglie, scolaresche, lieviti…tempo, ecco ciò di cui aveva bisogno per mettere a punto l’ennesima ricetta, quella giusta combinazione di grano e malti tostati che conferisce alla birra quel sapore inconfondibile. Tempo per capire meglio cosa raccontare, per scegliere le parole più appropriate, analizzare ogni singolo dettaglio, ivi incluso il suicidio finale… intanto, intanto speriamo che presto ci si strappi dal collo questo maledettissimo groviglio e voi, vi prego, leggete l’insegna alle mie spalle… “Non parlate al conducente!” intanto, vedete che non è il momento?
“DIINNN! DIINNN! DIINNN! …autista, allora che fa, me la apre la porta? È la decima volta che suono ‘sto benedetto campanello…o devo scatenare una rivoluzione…?”
“…una Rivoluzione, lei? Lei che ancora agita festoso la sua bella pagellina…allora che dice glielo hanno dato il voto stamattina, ne è contento? E’stato promosso? Parla di Rivoluzione e nemmeno sa come si inforna il pane…ma cosa pensa di saperne lei di cosa occorre per organizzarne una?”
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NOTE SULL’AUTORE
Francesco Aliperti Bigliardo (FAB) napoletano, classe 1967, scrittore per passione e metalmeccanico presso lo stabilimento Avio Aero (ex Alfa Romeo Avio) di Pomigliano D’Arco per necessità “perché non si vive di sole parole…” afferma.
Ha pubblicato nel 2009 per Edizioni Mayhem “La grande combustione” una commedia in due atti di ispirazione ambientalista andata in scena al teatro Gloria di Pomigliano d’Arco nel dicembre del 2014.
Altre pubblicazioni minori sono contenute nell’antologia “Assurdotempo e l’esatta logica” di Edizione Corsare e nella raccolta del 2012 per nuovi autori campani di Caracò Editore “Terra mia”.
Prossima uscita a settembre 2020 “Lo strano caso di Domenico Cuomo e del casale Sgambizzo”
Breve sinossi
Domenico Cuomo, meglio conosciuto come padre Robin, è un parroco della periferia partenopea che, come il leggendario arciere a cui si ispira, ha deciso di votare la propria esistenza alla protezione dei più deboli. Molto amato dalla comunità parrocchiale, è invece assai temuto dai suoi superiori e dalle istituzioni, che vedono in lui un elemento scomodo. Ma padre Robin va dritto per la sua strada, perché ha un obiettivo ben preciso: recuperare il casale Sgambizzo, antica residenza nobiliare abbandonata, e farne un centro di formazione per quei giovani che vivono tra disagio e criminalità. Quando i permessi tardano ad arrivare, a padre Robin non resta che affrontare di petto la questione.