– di Mariantonietta Losanno –
Un personaggio eclettico, Gore Verbinski. Prima musicista in una punk band, e poi regista. Ha realizzato film d’animazione (“Rango”, del 2011, per cui ha ricevuto il premio Oscar), horror (“The Ring”, del 2002), o pellicole come “La maledizione della prima luna” del 2003, e i successivi due episodi (“Pirati dei Caraibi – La maledizione del forziere fantasma”, e “Pirati dei Caribi – Ai confini del mondo”). “La cura dal benessere” si presenta come un thriller psicologico visivamente buono, solo a primo impatto purtroppo.
Un broker di Wall Street, giovane, ambizioso e piuttosto arrogante, viene mandato dalla sua società in una località delle Alpi svizzere per riportare a New York l’amministratore delegato della sua azienda. Quest’ultimo, a causa di una profonda crisi (non si sa esattamente di che tipo), si trova nella clinica del dottor Volmer. I trattamenti di questo idilliaco centro benessere del tutto isolato e immerso nelle montagne, sembrano miracolosi. Il giovane Lockhart, inizialmente convinto di risolvere la questione in giornata, viene costretto a fermarsi qualche giorno in clinica con una gamba ingessata, a causa di un incidente. Nonostante il clima generale dei pazienti sia di assoluta pace e serenità, i trattamenti adottati sembrano causare conseguenze disastrose. Proprio per questo, Lockhart è spinto ad approfondire i misteri di quel luogo. Nel frattempo, incontra una ragazza, anche lei paziente della clinica, e una signora, che gli confessa di aver condotto delle indagini sul centro per conto proprio. I medici diagnosticano a Lockhart la stessa patologia (non ancora bene identificata), di cui sono affetti anche gli altri pazienti. Inizia così una vera e propria prigionia e una serie di dolorosi e pericolosi trattamenti a cui verrà sottoposto. Questo lo porterà a perdere contatto con la realtà, e a non riuscire più a distinguere ciò che è reale da ciò che è frutto della sua immaginazione.
Non è questo il tipo di ansia che un thriller dovrebbe causare. Se l’idea era quella di far provare allo spettatore (contro la sua volontà) la stessa sensazione di “essere in gabbia” che avverte il protagonista, allora il film è pienamente riuscito. Somiglia più a un sequestro, a una trappola senza via d’uscita, piuttosto che a un thriller. La tensione che suscita è motivo di disturbo, non di intrigo. È come una vertigine, un giramento di testa che disorienta e infastidisce. In più, non c’è una trama accattivante che giustifichi adeguatamente tutte queste sensazioni. Incesti, anguille, pazienti che bevono acqua (o forse non si tratta di acqua), ancora anguille, ancora acqua. Il riferimento immediato che inizialmente si poteva ipotizzare era l’associazione con “Shutter Island” (del 2010, di Martin Scorsese), ma svanisce ben presto: nel film di Scorsese infatti, la sensazione di smarrimento viene controllata meglio, il tema è affrontato diversamente e non ci si sente (così) intrappolati come in questo caso. Per quanto apprezzata l’interpretazione di Dane DeHaan, ovvero il giovane Lockhart, il risultato finale è quello di non accettare la “cura” a cui Verbinski voleva sottoporci.