– di Mariantonietta Losanno – “Selvaggio, ossia crudele, brutale, che è tornato a vivere in uno stato primitivo”: questa sono le ultime parole di una delle Belve, Ophelia, detta “O”. È l’affascinante Blake Lively la voce narrante (come da tradizione nel cinema americano, da “Viale del tramonto” ad “American Beauty”); è lei che inizia a raccontare la vicenda, annunciando allo spettatore che alla fine della storia potrebbe essere morta oppure no. Ophelia dissemina indizi, fornisce una serie di informazioni ed interpretazioni che potrebbero essere, poi, più o meno utili. Ed è proprio la bionda narratrice ad essere il vertice di un ménage à trois con Ben e Chon, due amici per la pelle, coltivatori e spacciatori della migliore marijuana della California. Sembra che la vita di questo trio scorra idilliaca, come se ci fosse un equilibrio in questo atipico rapporto amoroso, fino a quando un cartello di trafficanti messicani non decide di fare affari con loro, che lo vogliano oppure no.
La sinossi sembrerebbe, dunque, quella di un film d’azione, ma è evidente che Oliver Stone abbia qualche ambizione in più. Il regista vuole forse riflettere sulla perdita dell’innocenza? O intende mettere in scena una rappresentazione violenta di “Jules e Jim”? Vuole rivolgere una critica verso la società americana (e in questo caso, il personaggio di John Travolta è emblematico, per quanto gli sia stata affidata una parte breve) O, ancora, Stone avrebbe voluto toccato temi come l’antiproibizionismo e l’utilizzo della marijuana in chiave curativa? Una cosa è certa, la brutalità è massima e sfortunatamente più che plausibile: i personaggi de “Le Belve” (adattamento del romanzo di Don Winslow) sono tutti -in un modo o nell’altro- “cattivi”, invischiati in affari loschi e pericolosi, accecati dal bisogno di arricchirsi o da quello di soddisfare il proprio piacere. Sembra che in questo mondo di selvaggi non ci sia possibilità di riscatto; i rapporti sono tossici e malati, ogni cosa è esasperata ed intrisa di violenza (fisica o psicologica). Nel tentativo di star dietro a tutte queste suggestioni, però, ci si confonde; tutti questi interrogativi sulle intenzioni del regista, infatti, potrebbero essere fuorvianti: la pellicola, in realtà, non si prende poi così tanto sul serio.
Il contrasto tra il paradiso californiano di sole, soldi e successo e la violenza agghiacciante delle torture, della guerra, dei traffici clandestini, sono sicuramente un punto di forza, che però Stone avrebbe potuto sviscerare più a fondo: viene da domandarsi, infatti, il perché di tutta questa brutalità poi ritrattata nel finale. È come se il regista avesse deciso di fornire due soluzioni, ma alla fine poi non è si è rivelato “all’altezza” di portare avanti quella più drastica (ma più credibile). Ne “Le Belve”, dunque, manca qualcosa (pur restando una componente adrenalina preponderante): coraggio, probabilmente, o capacità di osare che per un regista dovrebbe essere un elemento imprescindibile.