SPIDERDAD

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padre figlio SPIDERDADPorca miseria!

Ma si può sapere che ci fa tutta quella gente nel vialetto?

Oltre a un sacco di cronisti in fibrillazione, ci sono parecchi curiosi in attesa di vedere la mia faccia. Si accontenterebbero di farlo anche per pochi secondi; se poi potessero stringermi la mano e raccontare di essere stati a contatto con un esempio vivente di altruismo, per loro sarebbe il massimo.

Ma per me tutto questo è ridicolo! Io non sono un modello di virtù. Non mi pare di aver fatto qualcosa di eccezionale.

Mi fa tristezza notare la smania che ha certa gente di voler guardare da vicino una persona che ha compiuto un atto ritenuto eroico. Del resto, chi evita i ragionamenti che ritiene troppo difficili, è sempre, in modo consapevole o non, alla ricerca di un eroe.

Oggi ancora non ho acceso la televisione, ma non mi è difficile pensare che, dopo il tormentone di ieri sera, stamattina le emittenti abbiano ripreso a parlare di me. I toni saranno, come accade in circostanze simili, ridondanti, e il mio gesto sarà etichettato come valoroso. Ma qua di valoroso c’è poco.  Anzi non c’è nulla.

Delle troupe televisive in particolare non m’importa niente. Per me farebbero bene a caricare le apparecchiature sui furgoni e andarsene fuori dalle scatole.

Al telefono, un tizio si è presentato:

– Sono l’inviato speciale di Studio Aperto.

– Ah – ho risposto.

Quello, per nulla scoraggiato dalla mia freddezza, ha attaccato a parlare con la sicurezza di chi non è abituato a ricevere rifiuti. Ha detto di essere stato autorizzato dal suo direttore a staccare un assegno di tremila euro a mio nome. In cambio avrei dovuto lasciarmi intervistare per un quarto d’ora. I tecnici di ripresa avrebbero anche girato un paio di scene vicino al posto dov’è avvenuto il fatto.

Cortesemente ho risposto che la cosa non m’interessava.

Ha richiamato subito.

Stavolta però il tono era meno sicuro di prima. Ha detto che se proprio non volevo parlare con lui, avrei potuto prendere domattina il treno per Milano, e nel pomeriggio sarei stato ospite di Barbara D’Urso.

– Non ho capito bene. Mi sta invitando per il the delle cinque a casa della signora?  – Ho chiesto in tono ironico.

Il giornalista non si è abbattuto, e speditamente mi ha spiegato che se avessi accettato di partecipare alla trasmissione della D’Urso, in cambio avrei ricevuto un compenso doppio rispetto a quanto mi aveva offerto lui prima.

Le sue precise parole sono state:

– Permettimi di perseverare, Mario. Mi scuserai se ti do del Tu, ma ti chiedo di ripensaci. Seimila euro sono parecchi soldini, per un disturbo di poche ore. E poi, mezz’ora di diretta con Barbara D’Urso farebbero del tuo un volto noto.

E chi se ne frega!

Questo avrei voluto dirgli, ma la mia risposta, sebbene mi avesse dato fastidio sentirmi dare del tu da uno sconosciuto, è stata più garbata:

– La prego di non insistere. Tanto sarebbe inutile.

Lui ha rilanciato con tono affannato; nella sua voce c’era qualcosa che rasentava la disperazione:

– Forse si potrebbe arrivare a diecimila euro, Mario!

Quei soldi mi avrebbero fatto comodo, ma credo che la dignità di una persona non abbia prezzo.

Ho riagganciato senza salutare.

Poi ho staccato la spina del telefono.

Dubito che qualche estraneo conosca il mio numero di cellulare, ma per maggior sicurezza ho spento pure quello.

Mia sorella e suo marito assistevano alla telefonata, e mi hanno dato ragione.

Giovanna e Oreste sono due persone speciali, e non smetterò mai di ringraziarli per quanto fatto per me negli ultimi anni. Quando Valeria ed io ci separammo, capirono subito che avrei avuto delle difficoltà economiche e insistettero fino a convincermi a venire ad abitare con loro. Io non avrei voluto, perché hanno due figli adolescenti e temevo di scombussolare gli equilibri familiari, ma per raggiungere lo scopo, quei picchiatelli usarono proprio i loro figli.

– Immagina, Mario, che bello sarà per i ragazzi avere lo zio professore di matematica a disposizione in ogni momento!

Ai miei nipoti voglio bene, e l’affetto che mi dimostrano compensa un pochino la tristezza che provo a causa del distacco da mio figlio.

Jacopo quest’anno ha iniziato la prima elementare, e lo vedo meno di prima. Proprio per questo ogni occasione è buona per tenerlo un po’ con me. Devo riconoscere che, nutrendo un senso di colpa nei suoi confronti, gliela do’ vinta troppe volte. Non è educativo, lo so, e spero che lui non racconti troppi particolari a sua madre.

Valeria, infatti, per com’è premurosa potrebbe sollevare qualche problema. Con lei ho conservato un buon rapporto, e non vorrei che si guastasse per divergenze di vedute in merito all’educazione del nostro bambino.

Jacopo ha cominciato a guardare un certo genere di cartoni animati alla TV, e la settimana scorsa mi ha detto che sarebbe contento di scoprire di avere per papà un supereroe. Non mi sono offeso, ma un po’ di contrarietà l’ho avvertita. Ho provato allora a metterla sullo scherzo. Ho detto che difficilmente lui potrà vedermi nei panni di un tipo alla Superman. Mi ha squadrato per un po’. Aveva un’espressione così seria che mi ha messo in imbarazzo. Poi però mi ha abbracciato e ha voluto porre rimedio al malinteso:

– Quelli con i superpoteri non esistono, papà. Però l’Uomo Ragno è un’altra cosa.

– Ah, si? E che cos’è di preciso?  – Gli ho chiesto.

La risposta mi ha lasciato perplesso.

Spiderman, secondo Jacopo, è in realtà una persona normale, il cui fisico, a causa di una combinazione di elementi radioattivi, ha subito una mutazione genetica. Il veicolo di questo è stato il semplice morso di un ragno.

Sono rimasto come uno stoccafisso.

Combinazione di elementi radioattivi? Mutazione genetica? Ma dove avrà imparato certi termini, il mio bambino?

Ero turbato. Poi però ho pensato che andando avanti di questo passo i bambini saranno vittime (o forse beneficiari), di un bombardamento conoscitivo che li farà diventare delle spugne di sapienza.

A quel punto sono andato al di là delle preoccupazioni di padre e gli ho chiesto se gli piacerebbe che un giorno anch’io fossi morso da un ragno e acquisissi i poteri di Spiderman.

– No – ha risposto tutto serio – Io non voglio che un ragno ti morda e ti trasmetta delle radiazioni. E poi, tu sei già un Racecar driver dad.

Io sarei un Papà pilota automobilistico?

Mi è venuto da ridere.

Ecco a cosa porta l’insegnamento dell’inglese fin dall’età prescolare, mi sono detto: abbina all’immaginazione di un bimbo un po’ di vocaboli anglosassoni, e scopri da un giorno all’altro che per lui sei diventato un Uomo-qualcosa.

Ho compreso il perché dell’abilità che Jacopo mi ha fantasiosamente attribuito: quando percorriamo in auto le stradine di montagna, e siamo da soli, nei tornanti simulo con la bocca lo stridore che fanno le gomme sull’asfalto che si sente nei film, e lui ride contento.

In ogni caso, sebbene la destrezza nella guida di cui mi fa credito vada oltre le mie reali capacità, mi fa piacere che me l’attribuisca.

E’ da un po’ che la gente ha smesso di pormi delle domande in merito alla fine del mio matrimonio con Valeria. Forse hanno anche finito di lanciarmi delle accuse feroci alle spalle.

Io non negai le mie colpe, e ci rimasi male quando venni a sapere che cosa disse a Valeria la sua amica Ines (che era pure mia amica), quando ci separammo:

“Buttalo fuori di casa e poi, davanti al giudice, fottilo per bene, quel bastardo. Devi levargli perfino le mutande.”

In verità anch’io trovai nel mio amico Gerardo un consulente a dir poco stravagante, sebbene non avessi chiesto la sua opinione:

“Ma come cazzo ti è venuto in mente di confessare tutto a Valeria? Però forse puoi porre rimedio a questo guaio. Adesso le porti un bel mazzo di rose e le chiedi scusa. Anzi le dici che sei vittima di un equivoco. Così fate la pace, crescete insieme il vostro Jacopo e amen. Nel frattempo, con quell’altra te la spassi di nascosto. Sai, quando hanno il primo figlio, le donne per un paio di anni non capiscono più niente. Per una madre non esiste che quello. Il figlio. E il suo uomo è relegato a un ruolo di rincalzo. Così, mentre Valeria si prende cura del piccolo, tu ti scopi la tua amichetta. Poi, passata la fregola, stop e amici come prima. E questo ti serva di lezione per il futuro. Ricordati che per il bene della famiglia, alle mogli certe cose non bisogna dirle neanche con una pistola puntata alla tempia.”

Insomma, gli amici fecero sfoggio di grande insolenza da una parte come dall’altra, e non so, francamente, come consigliere fra Ines e Gerardo chi sia stato il peggiore.

Ieri pomeriggio, appena Pasquale mi ha detto che da un paio d’ore nessuno riusciva a ritrovare Brunetto, il figlio di sei anni di Agnese e Giovanni, una coppia che abita nel centro storico del paese, per prima cosa ho chiesto se nel Culo del diavolo ci avessero già guardato.

“Culo del diavolo”, così fu intitolato il pozzo risalente all’età medievale, che si trova più o meno a un chilometro da qui, famoso non solo perché è molto profondo. Lì dentro, infatti, negli anni trenta del secolo scorso ci cadde una ragazza, che restò uccisa. Pochi mesi dopo, un vecchietto fece la stessa fine. E a distanza di appena tre giorni dal vecchio, un uomo ne seguì la sorte. Quelle morti destarono un certo scalpore, al punto che ne parlarono i giornali a diffusione nazionale. La falda acquifera che aveva alimentato il pozzo era prosciugata da decenni, ma piuttosto che chiuderlo, le autorità cittadine decisero di sfruttare la nomea di pertugio maledetto che le tre disgrazie gli avevano procurato, e iniziarono a utilizzarlo quale attrazione turistica.

A farmi pensare al Culo del diavolo è stata una vicenda lontana nel tempo. Si tratta dell’incidente di Vermicino, un piccolo comune alle porte di Roma. Quella sciagura nel giugno del 1981 costò la vita a un bambino di sei anni.

Gli stessi di Brunetto, il bimbo scomparso ieri.

Gli stessi del mio Jacopo.

Trentacinque anni fa, tre giorni di tentativi per salvare Alfredino Rampi non servirono a niente: la creatura morì in un pozzo artesiano, a sessanta metri di profondità.

In fretta era stata organizzata una diretta televisiva che durò diciotto ore.

Fu un arco di tempo lungo e doloroso.

Dirigenti e tecnici della TV di stato avevano cercato di trasformare un fatto orribile in un’occasione di successo mediatico, ma per loro quello costituì uno smacco.

Io non diedi troppo peso alle prime notizie del telegiornale, però più tardi, quando il dramma si evidenziò meglio, ci riflettei.

Secondo mio padre la TV stava volutamente calcando i toni, ma il pensiero di un bambino bloccato in un pozzo, mi mise a disagio. Poi,  quando un uomo si calò a testa in giù per andare a prenderlo,  piansi  per la commozione.

Il mio papà mi canzonò:

– Ehi, Mariolino, che fai? Piangi come una femminuccia? Vedrai che il bambino lo salveranno, e saranno tutti felici e contenti.

Sorrisi forzatamente e dissi che andavo a letto. Avevo solo otto anni, ma mi vergognai da morire per la mia manifestazione di debolezza. Mio padre mi aveva invitato a essere forte, a comportarmi da uomo, e mi resi conto che lui non mi piaceva.

Gli volevo bene, ma non mi piaceva.

Perché non mi rispettava.

Diversamente da quanto previsto da mio padre, Alfredino morì in quel pozzo. Dopo di allora mi è capitato molte volte di infilarmi in un tunnel verticale freddo e buio. Succede soprattutto nei miei incubi notturni, però talvolta mi capita anche durante il giorno di rimanere per qualche secondo come stordito da un pensiero illogico: quello di scivolare lungo le pareti di un pozzo profondo. Lo psicoanalista, dopo aver inquadrato il problema, trovò anche il modo di scherzarci su:

–  Ciò che mi ha appena raccontato fa parte della normalità. E poi, nella vita reale difficilmente ci capita di avere a che fare con un pozzo, non le pare?

Non mi rassicurò molto; infatti, le mie paure restarono, e credo che siano state quelle a farmi temere che Brunetto si trovasse nel Culo del diavolo.

Senza indugiare ho allora detto a Pasquale di prendere una corda e di seguirmi.

Arrivati al pozzo, ci siamo affacciati, e Brunetto ha fatto sentire la sua voce.  Piangeva e gridava.

Lo faceva in un modo ossessivo. Sono stato preso dall’angoscia, ma  poi ho capito che quello era un buon segno: il bambino era vivo, e le sue condizioni di salute non dovevano essere gravi.

Però era necessario che lo tirassi fuori da quel cesso in fretta.

Al cellulare ho chiamato i carabinieri, ma poi ho ordinato a Pasquale di legarmi la corda alle caviglie e di calarmi a testa in giù nel Culo del diavolo.

Lui sosteneva che fosse meglio aspettare l’arrivo della Protezione civile; ho obiettato che strumenti sofisticatissimi e persone altamente addestrate, nel 1981 non avevano saputo salvare Alfredino. Dunque prima ci saremmo mossi e meglio sarebbe stato: Brunetto  poteva al momento solo contare su un uomo robusto ma ormai vecchio, e su un insegnante quarantenne dal fiato corto e con i muscoli mollicci.

– Voglio la mamma. La voglio! – ripeteva il bimbo – Perché non c’è la mia mamma?

Non mi è venuta in mente una risposta adatta; mi sono presentato:

– Sono Mario, Brunetto. Sono un tuo amico. Adesso vengo giù a prenderti per riportarti da lei.

Nel frattempo Pasquale mi legava le caviglie e mi chiedeva ancora una volta se fossi convinto di quello che facevo.

Lui è ancora un uomo forte, ma ha settantadue anni. Le sue mani sono pesanti come piombo e larghe quanto le eliche di un motoscafo, ma alla sua età è da mettere in conto l’eventualità di un improvviso cedimento fisico. Dunque ero consapevole del rischio che avrei corso, ma nulla poteva fermarmi.

Che diamine! Ho pensato per farmi coraggio. Se l’inferno era sul serio brutto, era anche vero che il cuore di Pasquale e le sue mani di ferro avrebbero fatto in modo che ne sarei tornato.

Appena è iniziata la mia discesa a testa in giù, ho provato un senso di soffocamento, ma mi sono detto che se da qualche parte lì sotto Brunetto respirava, potevo benissimo farlo anch’io.

Dopo pochi metri mi sembrava di essere già esausto.

Sentivo il sangue affluirmi in testa per effetto della forza di gravità; provavo un dolore incredibile nelle braccia, nelle cosce, nel petto, intorno al collo. Soprattutto le caviglie mi facevano male. Ho pensato di essere stato uno stupido a non farmi legare da Pasquale la corda da qualche altra parte. Se gli avessi chiesto di applicarmi intorno al torace un’imbragatura, sicuramente avrei provato meno fastidio. Ma ormai era fatta. Dovevo stringere i denti e resistere.

Ho capito che era il momento particolare a farmi stare così male.

Era la paura che amplificava il mio dolore.

Ho capito anche un’altra cosa: dovevo fregarla!

Per farlo, dovevo trovare un motivo per scherzarci sopra.

Mi è venuto.

Ho pensato che se Pasquale mi avesse legato il torace, Jacopo in un modo o nell’altro avrebbe saputo del papà imbragato come un salame e sarebbe scoppiato a ridere. Invece la corda che mi teneva per le caviglie poteva considerarsi il filo di una robusta ragnatela, facendomi somigliare a Spiderman.

Ecco. Questo a Jacopo avrebbero anche potuto raccontarlo

Ho ripreso la discesa.

E scendevo sempre più al buio. Sempre più al freddo.

A quanti metri ero arrivato? A dodici? A quindici?

Mi sono sfiduciato di nuovo.

Un’altra volta mi sono chiesto se potevo vivere a lungo con quel poco d’aria che mi entrava nei polmoni. Prendevo atto che il solo respirare stando in posizione capovolta è più complicato di quanto si pensi, e ho temuto di avere un collasso.

Se avessi perso i sensi forse sarebbe stato un disastro, perché con il mio corpo avrei ostruito il cunicolo, impedendo all’aria ossigenata di entrare.

Fortunatamente come mi è venuto in mente questo pensiero, l’ho scacciato.

Ho gridato a Pasquale di darmi corda.

Ho ripensato ad Alfredino, e ho ricordato come scendeva l’uomo che provò a tirarlo su dal pozzo. Procedeva di mezzo metro in mezzo metro.  Era lui che dettava i tempi agli uomini che in alto tenevano la corda.

“Giù … ferma … di nuovo … dai … calate un po’ … giù … giù.  No … ferma un po’ … calate di nuovo … giù … giù …”

Nel frattempo faceva coraggio al bambino:

Arrivo, Alfredino. Arrivo.

A testa in giù, ho provato a imitare quell’uomo coraggioso. Anch’io scendevo lentamente, e ogni pochi secondi incitavo il bimbo che volevo salvare.

Arrivo, Brunetto. Arrivo.

Ormai ero arrivato a venti, forse a venticinque metri di profondità. Dall’inizio della discesa erano passati più o meno quindici  minuti, ma a me pareva di stare lì dentro da una settimana.

Da un po’ non sentivo la voce del bimbo. L’ho chiamato. L’ho fatto a voce alta.

Poi ho urlato a squarciagola. Non ho avuto risposta.

L’ho chiamato ancora.  Niente.

Mi è sembrato di morire.

Ero esausto e scoraggiato: dov’era finito Brunetto? Quanti metri più sotto di me si trovava? Era ancora vivo oppure era successo come per Alfredino?

Non vedevo nulla, ma all’improvviso le mie dita hanno toccato qualcosa di morbido. Era una spalla. La spalla di Brunetto.

Gli ho parlato, ma lui taceva. Eppure era vivo. VIVO. Taceva perché aveva paura di me.

– Forza Brunetto, ora ti prendo e ti porto di sopra.

– No. Vai via! Non voglio.

Mi sono sentito gelare, ma non ho mollato.

– Perché dici questo?  Io sono un tuo amico.

– No. Tu sei cattivo. Voglio la mia mamma.

Che fare?

Io, che a certe cose neanche credo, gli ho raccontato una bugia:

– Sono un angelo, Brunetto. Sono il tuo angelo custode.

Nel buio più totale, la mia menzogna ha funzionato.

Brunetto-Alfredino mi ha creduto.

– Va bene. Portami dalla mia mamma.

Ho sorriso. Mi è tornato in mente Jacopo e la sua passione per i supereroi.  Lui si accontenta di un padre pilota, ma so che almeno per una volta gli piacerebbe avere per genitore l’Uomo Ragno.

Giusto per il tempo di compiere un’impresa eroica; non per altro.

Adesso non avevo più paura.

Ero arrivato con la testa all’altezza del torace di Brunetto. Ho fatto passare la mia mano sotto il suo sedere; quando ho capito di avere una presa sicura, ho gridato a Pasquale di tirare. E’ iniziata  la nostra risalita verso la vita, e mi sono sentito  forte. Come per incanto il mio braccio poco allenato è diventato come quello di Pasquale. Anzi di più. E’ diventato più forte di dieci braccia.

E’ diventato come quello di Spiderman.

Quell’energia me la stava trasmettendo un bambino sfortunato che nel 1981 morì in un pozzo. Era Alfredino Rampi che mi aiutava.

Non ci sarebbe stata un’altra morte assurda.

Alfredino non l’avrebbe permessa.

La risalita è stata faticosa. Lo è stata anche più della discesa. Però ormai sentivo che era fatta: mancavano pochi metri.

Otto, sette, sei…

Ero ancora a testa in giù, ma quando ho visto che intorno a me non c’erano più le pareti viscide e buie, ho socchiuso gli occhi e mi sono goduto quel momento.

Pasquale ha dato un ultimo strattone alla corda e ho scavalcato la parete di protezione del pozzo.

In braccio tenevo Brunetto. Ho continuato a stringerlo al mio petto fino a quando Pasquale con un movimento aggraziato non me l’ha sfilato dalle mani.

A quel punto mi sono gettato a terra. Eravamo ormai fuori dal Culo del diavolo, e solo allora mi sono reso conto che intorno al pozzo c’era tanta gente. Erano perlopiù uomini in divisa. Si trattava di operatori delle forze dell’ordine e della protezione civile, ma non mancavano i soliti curiosi.

Ero a pancia all’aria e ho iniziato a ridere guardando il cielo. Al mio fianco c’era Brunetto, che ha ripreso a piangere. Pasquale, tanto per non fare un torto a nessuno dei due, rideva e piangeva. Poi anche lui si è lasciato cadere, si è sdraiato al mio fianco e ci siamo abbracciati come due vecchi amici.

Una coppia d’infermieri ha disteso Brunetto su una lettiga e stava per portarlo via, quando sono arrivati di corsa Agnese e Giovanni.

I genitori del bimbo si sono fatti largo fra la folla a spinte e gomitate, e sono andati ad abbracciare il figlioletto. Nei loro occhi ho letto la paura residua frammista a una gioia indescrivibile.

Frattanto in parecchi scattavano foto e riprendevano la scena con i telefonini. Francamente non capivo che cosa ci fosse di così speciale da filmare. In fin dei conti Brunetto, Pasquale, Agnese, Giovanni ed io, eravamo solo dei personaggi assortiti in un modo bizzarro, che avevano appena illustrato al mondo che cosa vuol dire avere voglia di vivere.

Giornalisti e curiosi hanno incominciato a vociare in modo più nervoso.  Da un po’ sembra che emettano dei suoni indecifrabili. La lunga attesa deve averli esasperati, ma io che ci posso fare? Anzi mi chiedo come sia possibile che ancora non abbiano capito che con loro non parlerò né oggi, né mai. E che cosa avrei da dire? Che sono felice di aver salvato un bambino?  Fa notizia una cosa del genere?

Sono stanco. Provo a impormi un certo distacco da quanto capitato, ma il mio fisico ne ha risentito. E’ da ieri che non riesco a dormire per più di venti minuti di fila, e mi chiedo se per me la prossima sarà una notte tranquilla. Ne dubito, perché da anni i miei sonni sono agitati.

Da quando mi separai da Valeria, per la precisione.

Lei mi manca. Me ne sono accorto con il passare del tempo.

Forse aveva ragione mia nonna, quando diceva che per ognuno di noi nella vita c’è posto per un solo grande amore.

Lei aveva appena la licenza elementare, ma nella sua saggezza dal sapore antico affermava che due persone destinate a vivere insieme per sempre, sono come le rotaie del treno: i loro interessi potranno non intrecciarsi mai, eppure procederanno lo stesso in sintonia lungo il cammino delle rispettive esistenze.

Secondo i suoi parametri, il mio binario deve aver subito una sorta di deformazione.

Mi piacerebbe provare a raddrizzarlo, per poter programmare di nuovo il futuro con Valeria.

Ormai tutto dipende da lei: è Valeria la padrona del gioco, e nessuno potrà forzarle la mano.

A volte mi capita di pensare che se avessi imbrogliato un po’ le carte, lei mi avrebbe perdonato. O forse no. Le reazioni di una donna ferita talvolta sono originate dal particolare stato d’animo del momento, ma più spesso dipendono dal suo carattere. E le reazioni di Valeria, che di carattere ne ha sempre avuto da vendere, furono toste.

Non sono sicuro che ancora oggi lei la pensi in un certo modo. Si sarà accorta di come ho vissuto in questi sei anni.

Ammesso che di me ancora le importi qualcosa.

Da due giorni non vedo Jacopo. Ho voglia di incontrarlo, e penso che anche lui non veda l’ora di abbracciare il suo Spiderdad.

Il suo Papà-Ragno.

Ecco, se proprio devo dare un senso a quanto è capitato ieri, dico che il salvataggio di Brunetto servirà a rendere ancora più forte il legame con mio figlio. Contrariamente a quanto nel lontano 1981 fece mio padre con me, non lo prederò in giro se lui piangerà per una disgrazia appresa dalla TV. Sarò pronto a confortarlo nelle sue manifestazioni di debolezza da adolescente. E anche dopo ci sarò.

Per  Jacopo ci sarò sempre.

Perché qualsiasi cosa sia accaduta o accadrà, io sono suo padre.

Crescendo, si smette di “sentirsi figli” e un po’ ci si libera di mamma e papà, ma quando uno diventa genitore, lo rimane per tutta la vita.

Perché dai figli non ci si stacca mai.

Per Jacopo finirà il tempo dei supereroi, ed io smetterò di essere uno Spiderdad, un Papà-ragno, ma il mio amore per lui non finirà.

Mentre penso a queste cose, mi commuovo, e sento nascere in me un sentimento nuovo.

Ma si. Adesso tutto è più chiaro, e sono certo che la prossima non sarà una notte insonne.

Stanotte io sorriderò per un po’ nel buio.

E poi mi addormenterò.