MUSSOLINI E IL “SUPERCAPITALISMO”_

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         –      di Michele Falcone     –               

Mussolini nel 1933 aveva previsto le follie del capitalismo finanziario e del consumismo. Anticipò i temi di cui dibattiamo oggi. Il mondialismo, la globalizzazione che omologa modi di vivere, di vestirsi, di pensare, di agire. Tutto standardizzato, tutto uguale, le diversità e le specificità nazionali negate. La globalfinanza era definita da Mussolini “super capitalismo” che, diceva,” trae la sua ispirazione e la sua giustificazione dall’utopia dei consumi illimitati. L’ideale del super capitalismo sarebbe la standardizzazione del genere umano….Il super capitalismo vorrebbe che tutti gli uomini nascessero della stessa lunghezza in modo che si potessero fare delle culle standardizzate, vorrebbe che i bambini desiderassero gli stessi giocattoli, che gli uomini andassero vestiti della stessa divisa, che leggessero tutti lo mussolini lenin MUSSOLINI E IL SUPERCAPITALISMO stesso libro, che fossero tutti degli stessi gusti al cinematografo, che tutti infine desiderassero la stessa macchina utilitaria”.

La omologazione mondialista a Mussolini sembrava un progetto monopolista globale e mostruoso, frutto dell’avidità della borghesia.E nel 1938 di fronte all’egoismo e alle infamie della borghesia si sfogò con il genero Galeazzo Ciano con queste parole: “se quando ero socialista avessi avuto della borghesia italiana una conoscenza non puramente teorica quale dettata dalla lettura di Karl Marx, ma una vera nozione fisica quale ho adesso, avrei fatto una rivoluzione così spietata che quella del camerata Lenin sarebbe stata al confronto uno

Scherzo innocente

Il socialista riformista Luigi Salvatorelli, che del fascismo dava una lettura che contrastava quella tradizionale della sinistra, scriveva che: “un trionfo del nazionalfascismo non si può concepire se non come una rovina della civiltà capitalistica, alla quale noi non crediamo”. Per il marxismo, il capitalismo rappresenta una fase di sviluppo e trasformazione

della società. Per i fascisti rappresentava invece un modello economico e sociale che andava respinto e bloccato nel suo sviluppo. Come? Controllando la Banca Centrale e i maggiori istituti di credito e quindi avendo il potere di decidere sulla emissione della moneta; dando spazio al credito cooperativo legato alla piccola e media industria, favorendo il ruralismo con politiche di sostegno all’impresa contadina e la lotta al latifondo; nazionalizzando banche e industrie strategiche, facendo crescere le garanzie dello stato sociale. Nel 1945 lo Stato controllava metà dell’economia nazionale. Il miracolo economico degli anni Cinquanta nacque anche da quell’assetto produttivo e bancario. Tanto è vero che con l’irrompere dell’antifascismo istituzionale, il Paese nei decenni successivi smontò pezzo per pezzo tutto l’edificio economico costruito negli anni ’30. Va anche detto che il ruralismo del regime fascista puntava all’auto sufficienza alimentare come uno dei cardini dell’indipendenza del Paese, unitamente alla nascente industria chimica e alla stessa autarchia e alla difesa del lavoro italiano.
Qui non si tratta di nostalgismo o di un tentativo di recupero impossibile. Si tratta di capire che i guasti del capitalismo finanziario, dell ‘iperconsumismo e dell’avidità di una borghesia senza valori, erano già stati previsti poco meno di un secolo fa. Che dalla crisi dei nostri giorni si può uscire soltanto con il controllo della moneta da parte dello Stato e dall’intervento di quest’ultimo nell’economia. Roosvelt, e Mussolini prima di lui, avevano intuito quale fosse la via di uscita dalla crisi.

Sono i nostri governanti ad essere fuori da ogni logica di mercato che sia regolato e sgomberato dalla speculazione parassitaria.