– di Mariantonietta Losanno – La seconda pellicola di Wayne Roberts (scandita da cinque capitoli che compongono un unico discorso) si apre con la sconcertante notizia di un cancro ai polmoni. Il professor Richard Brown, però, non ha alcuna intenzione di curarsi: decide così di trascorrere il periodo di tempo preventivato dai medici in totale libertà. Saranno settimane rivoluzionarie, in cui tutto sarà concesso. Nessun freno inibitorio: si potranno dire parolacce in qualsiasi contesto e in presenza di qualsiasi persona, sarà consentito esprimere pareri scomodi, sarà perfino concesso di rompere bicchieri di cristallo o assumere atteggiamenti sconsiderati e disdicevoli. Nella vita del professor Brown ci sono tante cose da aggiustare: è tempo di ammettere le proprie colpe, di infondere ai propri studenti messaggi positivi e che possano fungere da modello, e di risanare i legami familiari.
Johnny Depp rappresenta un uomo in carne ed ossa che tenta di gestire una situazione fuori controllo: il protagonista sembra avere notevoli assonanze con un lato della vita privata dell’attore. È come se Depp interpretasse praticamente se stesso: si rapporta in modo particolare alle persone; è costantemente sopra le righe, ubriaco, stravagante. Di fronte ad un problema di così grande entità, viene però svilito degli eccessi e delle maschere che lo hanno contraddistinto in altre circostanze. Interpreta, dunque, un “se stesso più umano”. Il regista sceglie la strada dell’ironia corrosiva per rappresentare questo lungo, liberatorio e terapeutico congedo dalla vita. Richard abbandona tutte le ipocrisie e le bugie e reagisce con positività, tentando di godersi a pieno il tempo che gli resta. È, naturalmente, una positività che serve per difendersi e che nasconde paure e rimpianti. Il professor Brown arriva -forse- troppo tardi a comprendere che non può più perdere tempo a fare cose che non gli va di fare (un po’ come il Jep Gambardella de “La grande bellezza”): impara così a conoscersi più a fondo, ed incontra la parte di sé che rifiuta le regole e che apprezza i piccoli piaceri della vita. Ricordando però “American Beauty” (tra i due personaggi protagonisti ci sono delle forti somiglianze), la bellezza è nello sguardo, è semplicemente quella capacità di apprezzare un particolare, un dettaglio nascosto che può suscitare un’emozione. Ne consegue che la frustrazione, la sensazione di disagio nel sentirsi parte di qualcosa che non ci appartiene può condizionare la nostra percezione delle cose. “Arrivederci professore”, così come “American Beauty” si presenta come una satira delle ossessioni del ceto medio americano. La pellicola di Wayne Roberts, però, non prende chiaramente una posizione: resta a metà tra il sovversivo e il canonico, con il rischio -inevitabile- di diventare anche un po’ melenso.
Il personaggio di Johnny Depp è anche molto -o forse troppo- vicino a quello di Robin Williams ne “L’attimo fuggente”: vengono ripetute nel film frasi come “Non arrendetevi mai alla mediocrità”, “Non lasciate che la vostra intelligenza vada sprecata”, o ancora “Non lasciate che vi sfugga neanche un momento, afferratelo e fatelo vostro! Ogni singolo respiro va festeggiato”. Il rimando al “Carpe diem” dell’opera di Peter Weir è fin troppo evidente quanto non necessario: il paragone non regge, perché mancano lo spessore, gli intenti e la complessità narrativa. Per questo, “Arrivederci professore” si dimostra un buon prodotto, ma poco incisivo. La spinta vitale che arriva solo davanti alla prospettiva della morte è stata sviluppata più volte sul grande schermo: è sempre da apprezzare una sincerità scomoda e al tempo stesso salvifica, ma il risultato resta comunque un film in cui non si rilevano grandi novità. Si possono cogliere i modelli (maggiormente, come già detto, quello de “L’attimo fuggente” per quanto riguarda il messaggio ai giovani di ribellarsi di fronte alle convezioni; e quello di “American Beauty” per la scelta di abbandonare il velo di finzione e scegliere piuttosto la gioia infantile del “politicamente scorretto”), si può apprezzare l’interpretazione sincera ed umana, ma -purtroppo- lo spettatore ha l’impressione di trovarsi di fronte all’ennesimo tentativo di disperata ribellione. “Arrivederci professore” è un’occasione per togliersi quei famosi sassolini dalla scarpa facendo leva sul fatto che si è in punto di morte e che, quindi, non si ha più nulla da perdere: proprio per assecondare questo atteggiamento di sincerità possiamo convenire sul fatto che il film si dimostri un po’ spento e, contrariamente al messaggio, poco rivoluzionario.