– di Massimo Moscarella –
Nessuno potrebbe immaginare il tormento che avevo dentro.
O forse sì.
Per esempio lei, signore, mi dà l’impressione di riuscirci, perché si vede che è una brava persona. Me ne accorgo dagli occhi.
Anche gli ipocriti li riconosco così.
Dagli occhi.
È proprio dagli occhi che identifico gli insensibili che si credono normali, convinti come sono che la normalità si misuri con il loro metro di giudizio. Cioè quello della cattiveria.
Oggi finalmente mi sento libero di parlare. E allora parlerò.
Lo farò a voce alta perché si capisca quanto, al contrario di quello che si pensa comunemente, possa diventare difficile comandare la stazione dei carabinieri in un piccolo paese dove si conosce tutto di tutti, e dove non succede mai niente di grosso.
Nei ventidue anni del mio comando, tanto per capirci, non c’è stata neanche una rapina a mano armata. Solo qualche rissa, denunce per schiamazzi e ubriachezza molesta, un po’ di furti nelle villette quando i proprietari erano assenti, e altre cosette non troppo gravi. Però può capitare che in un posto tranquillo come il nostro, con la perfidia si uccidano tre persone e non si finisca in galera.
Non si è neanche indagati, a voler essere precisi.
Insomma, per la legge la si passa liscia.
Però la coscienza no.
La coscienza è un’altra cosa.
Per violentare quella, non c’è bisogno di infrangere le leggi scritte dagli uomini: basta stuprare le regole stabilite dalla morale.
Quello che vorrei far capire, in buona sostanza, è che l’epoca storica che stiamo vivendo dovrebbe rappresentare l’apice dell’intelligenza umana e della lealtà, e invece il perbenismo può ancora fare più male di una pistola.
Certa marmaglia abituata a colpire con la lingua sta bene attenta a mantenersi sui binari della legalità; ma, come dicevo, la maldicenza provoca a volte dei danni anche peggiori di quelli fatti con una pistola.
Ora però è inutile che mi dilunghi, perciò entro in argomento, e dico che i tre uomini che dieci anni fa furono accusati di molestare dei ragazzini, non c’entravano per niente con quella storia.
Io l’ho sempre saputo.
Fin da subito lo capii: le cose furono aggiustate in un certo modo perché tornava utile a qualcuno. I giornali annunciarono con molta enfasi che le Istituzioni avevano fatto pulizia grazie alle testimonianze di due persone.
Secondo la stampa, era loro il merito di aver permesso di spezzare la successione di gesti terribili compiuti ai danni di minori, in un piccolo ma laborioso comune del Nord.
E invece no! Non si spezzò proprio un bel niente, semplicemente perché le molestie ai danni dei ragazzini non c’erano mai state.
Noi addetti alle indagini non squarciammo la rete dei pedofili perché dalle nostre parti non c’era un’associazione di delinquenti dediti a certe schifezze. Sia chiaro, questo era un bene, però tre poveri cristi pagarono in modo tragico per un reato mai commesso. Le cose andarono proprio così, ed io, che forse avrei avuto la possibilità di salvarli, non sbugiardai i loro accusatori con la necessaria veemenza. Fu la paura che qualcuno potesse rovinarmi la carriera, che me lo impedì.
Ricordo bene, come se fosse successo ieri, quel fatto sconvolgente.
Una sera nel bar Ginepro, Renzo Rossignol, presidente della squadra di minibasket, fra un bicchiere e l’altro ebbe l’infausta idea di parlare della sua abitudine di dare, prima delle partite, una pacca sul sedere ai suoi ragazzini. Era quello il suo modo di incitarli, e non ci voleva un mago per capirlo. Anche i coach americani usano dare pacche sul culo ai loro giocatori, e non mi risulta che finiscano in galera. Ma quella sera due mascalzoni presero lucciole per lanterne, e invitarono Rossignol ad andare avanti nel discorso. Quello, un po’ alticcio, non si fece pregare, e confessò allegramente che anche un altro dirigente e l’allenatore della squadra facevano la stessa cosa.
Le canaglie che lo fecero parlare non erano persone qualsiasi.
Il primo, Sante Cappelli, ricopriva la carica di sindaco; l’altro si chiamava Giovanni Marzuccato, di mestiere faceva il costruttore edile e vantava conoscenze molto in alto. I due misero le parole di Renzo Rossignol in relazione con una denuncia presentata contro ignoti, pochi giorni prima, dai genitori di un dodicenne.
E nel nostro tranquillo paese scoppiò una specie di guerra.
Rossignol quella storia la ignorava, altrimenti si sarebbe guardato bene dal fare certe ammissioni.
O forse la sapeva, e il particolare che serenamente parlasse delle pacche sul sedere dei ragazzini, indicava proprio la sua onestà.
Sante Cappelli e Giovanni Marzuccato il mattino successivo vennero in caserma di buonora, e mi chiesero se non fosse il caso di inquisire Renzo Rossignol e i suoi due amici. Più che una richiesta, quello mi sembrò un consiglio, se non un vero e proprio ordine.
Sicuramente la coppia di volponi sperava di farsi in questo modo un po’ di pubblicità: la stampa non avrebbe, infatti, mancato di parlare di due personaggi noti a livello provinciale che si davano da fare per il trionfo del bene sul male.
Io, che ben conoscevo la loro fama d’intrallazzatori, mi mostrai scettico, ma ero pur sempre un maresciallo dei carabinieri, e iniziai le indagini. Per un uomo con la mia esperienza, le loro testimonianze valevano poco, quasi niente, ma feci il mio dovere e uno per volta convocai i tre inquisiti. Mi convinsi prontamente della loro buona fede, ma i loro accusatori diffusero la voce che il ragazzino della denuncia presentata contro ignoti, le molestie doveva averle subite negli spogliatoi.
Di quella querela nessuno, tranne noi carabinieri, avrebbe dovuto sapere. Tra le altre cose, il caso era già stato chiuso: il ragazzo si era inventato tutto nel tentativo di giustificare un rendimento scolastico fallimentare. Ma in provincia si sa come funziona, e in un battibaleno si scatenò una caccia al maniaco come non c’era più stata dai tempi del rapimento di Ermanno Lavorini.
Arrivati a quel punto, non potevo archiviare la storia senza l’assenso del colonnello Recanati, che era il comandante Provinciale di Legione. In attesa che lui mi convocasse, pensavo ai tre infelici finiti sotto il batacchio.
Dell’omosessualità di Renzo Rossignol tutti sapevano.
– Ma questo cosa c’entra? – Obiettai, quando Cappelli e Marzuccato tornarono in caserma per ricordarmelo.
Se ne andarono delusi, e sebbene ci fosse il pericolo che per ripicca quei due provassero a farmela pagare, tenni duro, convinto com’ero che non si potesse affermare a cuor leggero che un omosessuale dovesse per forza dare fastidio ai ragazzini.
Il secondo accusato si chiamava Alfonso Nardin. Era una gran brava persona che, senza guadagnare un centesimo, con il suo cadente pulmino Volkswagen di pomeriggio andava a prendere i ragazzini ai crocicchi delle strade del paese o sotto le proprie abitazioni, e a fine allenamento li riportava indietro.
Il terzo presunto mostro era Giuseppe Deldosso. Di mestiere faceva il manovratore di gru nei cantieri; era brutto come un rospo e celibe, ma faceva parte di quella particolare categoria di uomini che sanno mettere da parte le disgrazie per godersi le poche soddisfazioni che la vita gli riserva. Era l’allenatore della squadra, e le sue scelte tattiche erano accettate senza troppe discussioni. I ragazzi gli volevano bene, e lui ne voleva a loro. Soprattutto quelli meno dotati tecnicamente, destinati per questo al ruolo di riserva, li aveva a cuore, perché il senso di esclusione è fra le cose peggiori che possano capitare in età adolescenziale.
Ripensandoci a mente fredda, se quel brutto fatto non avesse provocato tre tragedie, si sarebbe potuto riderci sopra, ma ormai in paese le ipotesi più inverosimili avevano fatto presa nella testa degli sprovveduti come un velo di vinavil fra due lastre di compensato.
Così Renzo Rossignol, Alfonso Nardin e Giuseppe Deldosso finirono sulla graticola.
Diffusasi la voce che i carabinieri stavano indagando su un fatto che fin da subito, lo ripeto, a me era apparso fantasioso, quei tre disgraziati si trovarono catapultati nel turbine della maldicenza.
Purtroppo, intanto che le indagini giudiziarie perdevano sempre più valore, in un modo inversamente proporzionale cresceva nei gonzi la curiosità, e le malelingue ebbero gioco facile.
Due settimane dopo eravamo arrivati alle calunnie più bieche, e con il passare del tempo, piuttosto che sgonfiarsi, la vicenda si arricchiva di particolari sempre più assurdi; e i seminatori di cattiverie, nel frattempo diventati un piccolo esercito, non si fermarono più.
Io conoscevo vizi e virtù dei miei concittadini, e ne avrei avute di cose da dire sul conto di parecchi di quei moralisti, ma tacevo.
Neanche la morte di Alfonso Nardin fermò le meschinità. Più di uno disse che si era impiccato perché schiacciato dal rimorso.
Dopo di lui toccò a Renzo Rossignol.
Prima di buttarsi sotto a un treno, scrisse una lettera d’addio ai suoi fratelli. Gli chiedeva perdono per non essere nato come loro, e per avergli provocato dell’imbarazzo a causa della sua diversità. Quelli trasmisero la lettera a un giornale, che la pubblicò.
In paese parecchie persone furono allora assalite dai sensi di colpa.
Almeno, questo voglio sperarlo.
Infine fu la volta di Giuseppe Deldosso. Nel suo caso si ipotizzò l’incidente, ma un conduttore di gru della sua esperienza non sbaglia una manovra tanto facilmente. Per me, Giuseppe si fece precipitare intenzionalmente addosso il carico di mattoni che stava spostando.
A quel punto, tutto si era compiuto. L’esercito dei calunniatori aveva vinto la sua sporca guerra.
Ormai potevo mettermi il cuore in pace, ma più passavano i giorni, più la mia frustrazione cresceva. Sul lavoro ero sempre nervoso, e tutti gli uomini al mio comando se ne accorgevano; anche le attività di routine mi sembravano diventate degli ostacoli ardui da superare. La notte la passavo insonne. Mi ritenevo colpevole di non essere riuscito a cavare dai guai tre poveracci e spesso, quand’ero da solo, piangevo.
Andando avanti così mi sarei senz’altro preso un esaurimento, ma non riuscivo a reagire. La serenità garantita dal posto tranquillo in cui operavo, era diventata un ricordo lontano. Provavo tanta rabbia verso i due che avevano dato inizio a quella brutta storia. Sante Cappelli e Giovanni Marzuccato avevano compiuto una cattiveria troppa grossa, per farla franca. Ogni volta che li incontravo per la strada o, peggio ancora, ad una cerimonia ufficiale, mi si rimescolavano le viscere.
Fu allora che iniziai a progettare un sistema per incastrarli.
Se necessario, avrei anche contraffatto le prove. Le avrei addirittura inventate. Tutto avrei fatto, pur di sbatterli in galera.
Quei due dovevano pagare.
Ma poi mi bloccavo.
Ero un uomo di legge, e dovevo compiere il mio dovere con onestà.
Con tutto ciò, giorno dopo giorno, mese dopo mese, anno dopo anno, qualcosa si rompeva dentro di me.
Stavo morendo.
Lo sentivo.
Non avevo una malattia genetica, né ero stato contagiato da qualche virus. Eppure stavo morendo.
Speravo che nel momento in cui fossi andato in pensione, tutto sarebbe cambiato, ma così non fu.
Mi congedarono alla fine di una bella cerimonia con una medaglia ricordo, ma dopo aver stretto un po’ di mani, tornai a casa e presi atto che per me niente era cambiato.
E capii che se volevo riprendere a vivere, Sante Cappelli e Giovanni Marzuccato dovevano morire.
Ormai ero un carabiniere a riposo. Non comandavo più una stazione dell’Arma. Non ero più il capo di nessuno, se non del mio contegno.
Ero finalmente libero.
Per qualsiasi azione brutta che avessi compiuto, ne avrei pagate le conseguenze, ma l’avrei fatto da cittadino normale.
Non avrei infamato la divisa che per trentasei anni avevo indossato.
Nessuno avrebbe riportato in vita Renzo Rossignol, Alfonso Nardin e Giuseppe Deldosso; nessuno avrebbe più guardato negli occhi quei tre galantuomini per scusarsi, ma una cosa potevo farla: vendicarli.
La Beretta d’ordinanza avevo dovuto riconsegnarla al momento del congedo, ma il porto d’armi non mi era stato ritirato, e in un’armeria della città acquistai una P38 Smith & Wesson.
Giovanni Marzuccato e Sante Cappelli portarono a termine i loro tre omicidi (perché le morti di Renzo, Alfonso e Giuseppe furono dei veri e propri assassinii), e perciò andavano puniti.
Progettai per loro una doppia esecuzione pubblica.
Decisi di sparargli all’uscita del bar Ginepro prima di cena, perché a quell’ora molta gente usa bere l’aperitivo con gli amici, e in parecchi sarebbero stati testimoni del mio atto di giustizia.
La decisione non era casuale: nel bar Ginepro erano cominciati i guai per Renzo Rossignol, Alfonso Nardin e Giuseppe Deldosso, e all’uscita dello stesso bar io gli avrei restituito l’onore.
Attesi Giovanni e Sante fin dalle sei del pomeriggio, rimanendo seduto in macchina.
Mentre aspettavo di vedere da un momento all’altro le loro brutte facce, mi rigiravo la pistola fra le mani, ma non mi sentivo nervoso. Provavo solo una voglia fredda di spegnere le loro esistenze.
Alle sette e un quarto finalmente li vidi. Scesi dalla macchina e gli andai incontro a passo lento.
Mi guardarono e sorrisero nel loro solito modo.
Per anni avevano saputo dell’avversione che nutrivo per entrambi, ma fino a quando avevo indossato la divisa, erano stati ben attenti a non offrirmi l’occasione per dargli delle noie. Quando il mandato di sindaco di Sante Cappelli terminò, e Marzuccato finì in disgrazia per colpa della crisi dell’edilizia, diventarono molto più guardinghi, ma nel momento in cui andai in pensione, smisi di costituire per loro un pericolo.
Era questa la ragione per cui mi fissavano con un sorriso carico di sfida ogni volta che li incontravo.
Adesso però quella brutta coppia di bastardi si sarebbe accorta che le cose avevano preso un altro verso.
Tirai fuori la pistola e gliela mostrai.
Il sorriso ebete di Sante Cappelli si spense. La stessa cosa capitò al suo degno compare.
Alzai l’arma e intimai a entrambi di mettersi in ginocchio.
Lo fecero.
Giovanni scoppiò a piangere. Sante sembrò all’inizio conservare un po’ di dignità, ma poi si mise a tremare come una foglia al vento, pose la fronte sul selciato e m’implorò di avere pietà di lui.
Con mano ferma puntavo la pistola ora alla testa dell’uno, ora a quella dell’altro.
Passarono due o tre minuti, ma a me parve un tempo lunghissimo.
Li invitai a confessare i misfatti compiuti dieci anni prima ai danni di tre poveracci. Lo fecero all’istante. Dissero di aver sempre saputo che Renzo Rossignol, Alfonso Nardin e Giuseppe Deldosso erano delle brave persone.
Gli gridai di ripeterlo ad alta voce, perché tutti potessero sentire, e mi accontentarono.
Percepivo intorno la presenza della gente. Forse si trattava di poche decine di persone, ma ero convinto che idealmente tutto il paese fosse testimone della doppia esecuzione che stava per avvenire.
Sorrisi soddisfatto: finalmente a Giuseppe, Renzo e Alfonso era stato restituito l’onore.
Adesso toccava ai loro aguzzini pagare per la porcheria compiuta.
Ero sul punto di sparare, quando ebbi una folgorazione. Una nuova idea mi era balenata nella mente.
Girai con calma la canna della pistola in direzione della mia faccia.
Tirai il grilletto.
– – –
Ecco, caro Signore. Adesso le ho spiegato come andarono le cose.
Sono stato uno sciocco a pensare, all’ultimo momento, che fosse più giusto che a uscire di scena fossi io?
Giovanni Marzuccato e Sante Cappelli a quest’ora staranno ridendo di me. Diranno in giro che ero un debole, e forse convinceranno la loro superficiale platea che quello sbagliato ero io.
Ebbene le dico, Signore, che non fa niente.
Non importa.
Che la gente pensi di me quello che le pare.
Io non ho avuto il coraggio di uccidere due farabutti, ma non me ne pento. Come dicevo all’inizio, c’è chi infrange le regole morali non mostrando alcuno scrupolo. Questo vuol dire che possono tradire la loro coscienza.
Io ho provato a farlo, ma mi sono fermato appena in tempo.
A tutto questo c’è una spiegazione, Signore mio: ho pensato in quei momenti che se diventasse una regola arrogarsi il diritto di formulare per ognuno di noi un ultimo, fatale giudizio, nessuno sopravvivrebbe.
Io l’ho capito, Signore.
Oggi sono qui da Lei proprio grazie a questo, lo so.
E mi sento veramente in pace.