Quattro storie e quattro universi concatenati compongono la pellicola di Iñárritu, quella che chiude la Trilogia sulla morte (sancita dalla collaborazione Iñárritu – Arriaga), inaugurata con “Amores Perros” e proseguita con lo straziante “21 grammi”. Le vicende si svolgono in diversi contesti politici e sociali, tra Marocco, Giappone e Messico: “Babel” è una storia di destini incrociati, in cui la parola chiave è “compassione” (mai nell’accezione di pietà). Cosa potrebbe mai accomunare personaggi tanto diversi, se non il loro lato umano? In un momento storico come questo, l’opera di Iñárritu dimostra quanto non conti nulla la distanza geografica o culturale: il regista messicano segue i suoi personaggi indagandone l’evoluzione e mettendo in mostra le loro vulnerabilità e sofferenze.
“Babel” non vuole essere (soltanto) un film politico, nonostante si confronti con temi impegnati come il terrorismo, il classismo, il rapporto tra Stati Uniti e Messico, il trattamento di qualsiasi forma di devianza e diversità; nel rifuggire l’idea di presentarsi come un film politico, evita anche di cadere nell’eccessiva retorica. Per poter apprezzare a pieno la pellicola di Iñárritu influisce indubbiamente una certa predisposizione mentale: chi possiede un’innata sensibilità potrà empatizzare facilmente con le storie dei personaggi -in cui l’unico filo conduttore è il dolore- e potrà godere di una vera avventura spazio-temporale. Le vicende si incastrano, legate semplicemente dal caso. Non si è certi se alla fine del percorso ci si potrà redimere o si soccomberà: il punto è che non sempre ci si sente sollevati o puniti come ci si aspetterebbe. La bravura del regista si palesa nel suo modo di essere equilibrato, riesce a non eccedere. Le quasi due ore e mezza del film scorrono fluidamente, lo spettatore è catturato dalle varie vicende che alla fine incastrandosi diventano un’unica grande storia intensa che sa parlare di sentimenti. Lo sguardo di Iñárritu è umano, il pubblico inevitabilmente sente di potersi lasciare andare, mettendosi a nudo e commuovendosi. I toni melodrammatici non vengono esasperati: il dolore parla da sé, legando storie e persone diverse, oltrepassando le difficoltà di comunicazione (cui fa riferimento anche il titolo biblico) e le barriere linguistiche.
Il regista messicano indaga sulla solitudine e i confini geografici, culturali e psicologici che la creano; sulla cognizione del dolore e sui sentimenti che possono unire o dividere. Ci si sofferma anche a riflettere: quanto più ci sembra di avere gli strumenti per comprendere gli altri, tanto meno ci si riesce a capire. In “Babel” la compassione è il fulcro di tutto, una compassione che si presenta come il punto di arrivo di una lacerante crescita interiore che comporta l’accettazione, il riconoscimento dei propri errori, delle proprie sconfitte, la liberazione che scaturisce dal saper perdonare se stessi e gli altri. Le storie sembrano accostate in maniera apparentemente arbitraria, in realtà in ognuna di loro Iñárritu dissemina elementi differenti intrisi di un’emotività consapevole e mai ostentata. In “Babel” incontriamo persone diverse che hanno perso la loro identità o perché troppo ricche, o perché troppo povere, o perché troppo sole, non riescono più a comunicare, e incontrando questi personaggi ritroviamo anche noi stessi.
Mariantonietta Losanno