– di Massimo Moscarella – Che quel martedì di due settimane fa non sarebbe trascorso per Elsa come un giorno normale, lei avrebbe dovuto accorgersene fin dalle sette e tre quarti del mattino. Probabilmente, se si fosse resa subito conto dei guai che l’aspettavano, invece di prendere l’autobus sarebbe tornata indietro e subito avrebbe telefonato in ufficio per dire che era ammalata. Si sarebbe perciò rimessa a letto, senza prendersi neppure la briga di fare i mestieri di casa.
Nella scuola frequentata dai suoi due figli, le lezioni terminano alle tredici, e prima delle tredici e venti loro non tornano, perciò avrebbe potuto poltrire per diverse ore fra le pareti domestiche, scansando un sacco di rogne.
O forse no.
Certe giornate, infatti, sono destinate ad andare in un certo modo, e se Elsa fosse rimasta in casa, magari ci sarebbe stato un terremoto di magnitudo 9 Richter che avrebbe tirato giù il palazzo.
Come si diceva, alle sette e quaranta Elsa uscì di casa, e ben presto l’orologio della sua vita incominciò a girare in un modo curioso.
Fino a quel momento lei, sempre così meticolosa nel programmarsi le giornate, si sarebbe detta pronta a scommettere che uno i guai li trova solo quando li cerca.
Quel martedì si sarà sicuramente ricreduta.
Anzi deve essersi proprio convinta che talvolta le disgrazie piovono sulle persone quando queste si accorgono di avere l’ombrello rotto.
Oppure quando l’ombrello non se lo sono neanche portato dietro.
Dunque erano le sette e tre quarti, minuto più minuto meno, quando Elsa salì a bordo del pullman e, cosa strana, trovò posto a sedere.
Era, quello, un primo cattivo presagio che non colse.
Sul momento pensò che per una volta non avrebbe viaggiato in piedi, e neanche ci sarebbe stato un maiale pronto a rifilarle una carezza sul sedere o a sfiorarle il seno con la mano, prendendo la scusa di voler raggiungere con la manina viziosa la barra verticale per non cadere.
Il tragitto fu percorso dall’autista in un tempo insolitamente breve. Sembrava (altro cattivo segno!) che i conducenti delle macchine, di solito indisciplinati e avvezzi a intasare la corsia riservata ai mezzi pubblici, si scansassero al passaggio del pullman.
Fino a pochi minuti prima, cioè durante l’attesa alla fermata, agli occhi di Elsa tutto sembrava svolgersi nella normalità cittadina a cui era abituata: gli automobilisti sgasavano come deficienti a macchina ferma, e al semaforo che segnava rosso suonavano il clacson senza alcuna ragione; i ragazzini sui ciclomotori impennavano i loro mezzi di merda sentendosi tanti piloti del campionato mondiale di Moto GP; i pedoni, da parte loro, attraversavano dappertutto tranne che sulle strisce; eccetera eccetera.
Adesso no.
Ora pareva che tutti i veicoli viaggiassero rispettando il codice della strada, e la gente procedesse tranquilla sui marciapiedi.
Elsa avrebbe dovuto capirlo che si trattava di una calma apparente. Sul tipo, tanto per intenderci, dei minuti che anticipano lo tsunami, con il mare che all’improvviso si ritira per poi venire avanti come un enorme muro d’acqua che travolge tutto e tutti.
In ufficio ci fu un’altra sorpresa: Gina, nota lavativa e impenitente leccapiedi di capi, sottocapi e capetti, l’accolse con un sorriso e si mostrò propositiva:
– Ciao, Elsa. Mentre venivo al lavoro, ho pensando se per caso non ti servisse una mano per sbrigare quelle pratiche un po’ rognose di cui mi hai parlato ieri.
Il tono era affabile, e per una volta Elsa ebbe l’impressione che Gina fosse sincera.
Anche questa era una cosa strana, considerato che da anni aveva l’impressione che quella stronza la odiasse.
Lasciò cadere la proposta di aiuto, ma ringraziò la collega.
Poco dopo, ci pensò il dottor Colasanti a sorprenderla:
– Oggi è una giornata così bella, ragazze, che non posso tenermi dentro quello che volevo dirvi da tempo, e cioè che siete veramente le collaboratrici che ognuno vorrebbe avere. Sto pensando se non sia il caso di lasciarvi uscire un paio d’orette prima. Anzi, volete sapere che faccio? Vado subito di là a parlarne con il direttore e vi faccio sapere.
Le impiegate si guardarono. Erano stupite. Non si aspettavano di certo che il dottor Guglielmetti accogliesse la richiesta di Colasanti, che nella scala gerarchica stava un gradino sotto di lui, ma furono felici che il loro capufficio ci provasse.
Ebbene si sbagliavano: due minuti dopo, ecco ricomparire la faccia soddisfatta di Colasanti.
– Urrà, ragazze! Permesso accordato. Alle due e mezzo potete andare a casa. Il dottor Guglielmetti non ha avuto niente da ridire.
Gina fece un balzo e lo baciò sonoramente sulla guancia.
– Uau! Grazie, dottor Colasanti.
Elsa considerò sul momento che anche stavolta quella ruffiana non si fosse lasciata scappare l’occasione per mettersi in mostra, ma si pentì subito del pensiero cattivo, perché Gina si girò verso di lei e la abbracciò. Aveva le lacrime agli occhi.
– Mia cara Elsa, forse in tutti questi anni mi sono comportata in un modo poco corretto con te, che nel lavoro sei senz’altro più brava di me. Era da un po’ che volevo dirtelo. Adesso che l’ho fatto, sai che ti stimo.
Elsa non era la sola ad essere sbalordita. Anche le colleghe presenti, infatti, sembravano favorevolmente colpite da quelle manifestazioni di affetto.
La mattinata lavorativa trascorse dunque tranquillamente. Il clima era insolitamente sereno. In sala mensa si presentò pure il capo, che dopo aver salutato i presenti con un affettuoso movimento del braccio e un sorriso amabile, si sedete a tavola con loro.
L’evento era da considerarsi a dir poco eccezionale.
Dopo il pranzo, ancora un’ora di lavoro e poi tutti via. Tutti liberi.
Impiegate e impiegati uscirono a uno a uno con facce serene.
Elsa andò alla fermata del bus. Era felice. Si mise mentalmente a fare il punto della sua vita. Il lavoro andava benone, i rapporti affettivi con suo marito, che avevano registrato l’anno precedente una flessione, potevano adesso definirsi soddisfacenti; i figli a scuola non avevano problemi.
Anche sull’autobus del ritorno a casa Elsa trovò (altro miracolo) posto a sedere. Faceva abbastanza caldo, e fu felice quando qualcuno aprì un po’ il finestrino, due posti davanti a lei.
Dopo pochi secondi una cavalletta, entrata proprio dal finestrino, le sbatté sulla faccia.
Elsa, inorridita, la scacciò con la mano.
La bestiola cadde sul pavimento del pullman.
Sembrava ferita.
Probabilmente a causa della manata rifilatale da Elsa, si era rotta un’ala, o forse una zampa.
Tutti guardarono la cavalletta, esprimendo compassione.
Poi tutti si girarono a guardare Elsa, e le loro facce cambiarono espressione: adesso manifestavano ostilità.
Un vecchietto la rimproverò: – Ma si rende conto di cosa ha fatto?
Lei non capì. Osservò nuovamente l’animaletto che si dimenava con disperazione.
Ne provava pietà, ma si trattava pur sempre di un insetto!
Gli altri passeggeri non sembravano pensarla allo stesso modo, e continuavano a guardare un po’ la cavalletta, un po’ Elsa.
Non ce n’era uno che le manifestasse un briciolo di solidarietà.
Elsa non capiva. In fin dei conti non l’aveva mica fatto apposta!
Per fortuna l’autobus arrivò abbastanza presto alla sua fermata. Lei si alzò e si fece largo.
Aveva dimenticato che sul pavimento c’era la cavalletta ferita.
Il Ciack risuonò, forte e chiaro, come lo scoppio d’una castagnola in un monastero di monache di clausura.
Tutti squadrarono Elsa. Stavolta l’odio avvertibile in quegli sguardi era profondo.
Poi guardarono nuovamente la povera bestia spiaccicata.
Una ragazza, probabilmente una studentessa, gridò:
– Vergognati, assassina.
Elsa si precipitò giù dal mezzo.
Sul marciapiede pensava di essere ormai al sicuro, quando si accorse di alcuni passeggeri che, scesi anche loro dal pullman, la braccavano.
– Assassina. Assassina. – mormoravano in modo ostinato.
Si mise a correre, ma anche gli altri lo fecero.
– Non molliamo questa criminale, gente. E qualcuno chiami la polizia.
Elsa sudava.
Piangeva.
Non ci vedeva tanto bene per colpa delle lacrime, però sapeva che doveva correre.
Fu allora che successe il patatrac.
Nel tentativo di sottrarsi all’assedio, travolse una sedia a rotelle.
Sulla carrozzina, fino a un momento prima dello scontro ci stava seduta una vecchietta.
Adesso la vecchina non c’era più.
O meglio, c’era ancora, ma non stava sulla sedia.
Era distesa, pancia all’aria, e agitava le braccia tutta incazzata.
– Per la Madonna! – bestemmiò la vecchia.
– Dio mio! – disse Elsa.
– Ooooooh – fecero tutti.
Elsa si rimise faticosamente in piedi e capì cosa aveva combinato.
In tono mortificato provò a scusarsi.
– Scusa un cazzo! – Imprecò la vecchia da terra.
– Assassina. Vergognati, assassina. – Accusarono gli astanti.
– Scusa un cazzo! – ripeté la vecchia
Elsa tentò di farla ragionare:
– Le chiedo scusa, signora. Mi dispiace tanto, ma non l’avevo vista.
– Ma stai zitta, stronza. – disse la vecchia paraplegica – Oltre che orba, mi sa che sei pure scema.
Elsa era spaventata, ma quel tono la indignò.
– Signora, non mi sembra il caso che lei mi insulti. In fin dei conti non l’ho mica travolta di proposito. Le ho già detto che mi dispiace.
– Mi dispiace un cazzo! – Continuò la vecchia. – Dici che non l’hai fatto di proposito. Vuoi che ti dica brava? Ci mancherebbe pure che lo avessi fatto apposta!
Elsa provò nuovamente a farla ragionare:
– Guardi, signora, se ho fatto dei danni, pagherò. Stia tranquilla che la carrozzina la farò riparare a mie spese, perché comprendo benissimo il suo problema.
La vecchia la squadrò come si potrebbe guardare un’aliena.
– Problema? Ma di quale problema parli?
– Beh, del suo … come dire … del suo handicap.
– Handicap? Qua l’unica handicappata sei tu. Lo sei in quella testa di cazzo che ti ritrovi.
Arrivò una volante della polizia con il lampeggiante acceso, ed Elsa pensò che i suoi guai stessero per finire.
I due agenti uscirono, pistole in pugno.
– Fermi tutti. Che succede qui?
Le persone scese dietro di lei dall’autobus additarono Elsa, dandole dell’assassina.
Le voci si sovrapposero, rendendo tutto più difficile.
“L’ha uccisa”
“Non faceva niente di male”
“Povera cavalletta”
I poliziotti si guardarono. Poi guardarono Elsa, e senza indugiare le si buttarono addosso.
Lei in soli due secondi si ritrovò con la faccia schiacciata contro il selciato, le mani dietro la schiena tenute ferme da una presa ferrea.
Mentre un agente completava l’operazione di cattura mettendole le manette, l’altro comunicava via radio alla centrale il fermo di una terrorista.
Nel frattempo la folla applaudiva, e la vecchia, che qualcuno aveva risistemato sul suo mezzo di trasporto, esclamò:
– Bravi poliziotti. Portate via quella delinquente.
Un’ora dopo, Elsa si trovava seduta in una stanza illuminata in un modo esagerato; quattro o cinque uomini la stavano interrogavano. Uno solo si qualificò: era il commissario Rotondi, capo della sezione che si occupava di reati di stampo terroristico.
Lo disse dando per scontato che lei lo conoscesse.
A Elsa certe domande sembravano assurde. Che significato avevano le frasi:
– E allora, ti decidi a parlare?
– Vuoi farli o no, i nomi dei tuoi complici?
– Come si chiama la vostra organizzazione?
– Dove hai messo l’arma del delitto?
Ma come si fa a pensare che per ammazzare un semplice insetto uno debba far parte di un’organizzazione? Si chiedeva la povera Elsa.
Dopo l’interrogatorio, la sbatterono in camera di sicurezza.
Solo allora uscì un po’ dal suo intontimento e si mise a protestare:
– Ma si può sapere perché mi tenete qui? È stato un incidente. Non avevo nessuna intenzione di schiacciare quella povera bestia.
Nessuno le rispondeva.
Sospettò che qualcuno la stesse osservando. Anzi ne era certa.
Sicuramente un funzionario di polizia, per mezzo di una telecamera ben occultata, studiava le sue mosse.
Ma che cosa volevano da lei?
Si mise a piangere. Gridò che voleva vedere suo marito.
Chiese anche di telefonare al suo avvocato.
Non ne aveva mai avuto uno, ma le era venuto in mente che nei telefilm fanno tutti così.
Finalmente la porta si aprì. Insieme con il commissario Rotondi entrò un signore dall’aria distinta. Sorrideva.
Ad Elsa fece venire in mente Gregory Pack di Vacanze romane, e questo particolare sortì l’effetto di calmarla un pochino.
Da anni le capitava di associare alla faccia di uno sconosciuto quella di un attore. Era una cosa che le veniva spontanea. Lei amava il bel cinema, e quel modo di fare aveva il potere di tranquillizzarla, oppure di agitarla, a seconda della simpatia o antipatia che le ispirava una persona.
In quel caso, la faccia del nuovo venuto le ispirò simpatia.
Purtroppo l’effetto benefico durò poco, perché Gregory Pack usò subito dei modi spicci:
– Avanti, signora, vuoti il sacco. Prima lo fa, e meglio è per tutti.
– Ehi, un momento – protestò Elsa. – Per prima cosa, lei chi è?
Quello la guardò con aria annoiata.
– Sono il Piemme. Mi chiamo Guido De Giorgis. Per lei “dottor” De Giorgis. Avanti, forza, parli, si dia una mossa.
Elsa non capiva.
– Piemme? E che significa?
Guido De Giorgis ebbe un moto d’insofferenza:
– Significa Pubblico Ministero. Oltre che assassina, mi sa che lei è pure un’ignorante.
Adesso più che a Gregory Peck, rassomigliava a David Sutherland ne La cruna dell’ago. Come il personaggio del film tratto dal libro di Ken Follet, sorrideva in modo gelido, distaccato.
Lei immaginò che quel sorriso nascondesse una spietata intenzione.
Questa:
“Adesso ti faccio un culo così, assassina di cavallette!”
La frase che pronunciò il P.M. subito dopo, indurendo ancora di più il tono, non fu propriamente quella, ma il significato era lo stesso.
– Forza. Muoviti. Confessa il reato e fai i nomi dei tuoi complici. Chi è il capo della vostra organizzazione? Chi c’era con te quando hai commesso il crimine?
– Io non ho fatto niente di male! – ribatté Elsa con vigore – Anzi, visto che siamo a questo punto, pretendo di sapere perché mi tenete rinchiusa.
Fu così che, dopo tanto attendere, le comunicarono di cos’era accusata.
– Stamattina, alle sette e cinquantacinque, hanno sparato e ucciso, o meglio, TU hai ucciso, Ugo Cavalletta. Lo hai fatto in via Giuseppe Garibaldi appena lui è uscito di casa. Secondo diverse testimonianze, è stata una donna a sparargli due colpi di pistola alle spalle. E quella donna ha, guarda caso, proprio la tua fisionomia.
– Ugo Cavalletta? Ma io non so neanche chi sia!
Con aria paziente il P.M. disse che si trattava di un sottosegretario.
Elsa non riuscì a trattenere una risata.
Il magistrato non la prese bene, e si mise a sbraitare che l’avrebbe fatta sbattere in galera per trent’anni.
Elsa chiamò a raccolta tutta la calma di cui fu capace e si scusò. Disse che rideva perché di sicuro adesso l’avrebbero discolpata e se ne sarebbe tornata a casa.
– Ah si? Sarai scagionata? E perché, di grazia? – chiese il P.M. in tono sarcastico.
Lei sorrise. Stava riacquistando un po’ di fiducia.
– Sarò scagionata per due motivi, signor giudice. In primis perché via Giuseppe Garibaldi si trova dall’altra parte della città, rispetto al tragitto che ho fatto io per andare al lavoro. E poi perché l’unica cavalletta con cui oggi ho avuto a che fare, l’ho schiacciata sotto la scarpa a bordo del pullman, di ritorno a casa.
– Mmm. Questo lo vedremo. – Rispose il magistrato, mentre dava un’occhiata all’orologio che portava al polso.
La spiegazione di Elsa evidentemente non lo convinse, perché prima di andarsene commutò il fermo in arresto.
Poco dopo Elsa fu portata in carcere, e il suo incubo diventò ancora più sconvolgente…..
FINE DELLA PRIMA PUNTATA. A DOMENICA PROSSIMA PER L’ULTIMA PARTE