Un uomo si risveglia in una prigione verticale. Sopra e sotto di lui ci sono dei livelli, nel pavimento c’è un buco che consente il passaggio di una piattaforma -che procede di livello in livello- su cui è disposto il cibo. Se le persone mangiassero solo ciò di cui hanno bisogno, ce ne sarebbe a sufficienza per tutti, ma ovviamente il sistema è iniquo: c’è chi si ingozza, chi stenta a sopravvivere e chi muore di fame. La pellicola si presenta come un horror distopico, in cui l’idea della lotta di classe viene rappresentata attraverso il sistema della distribuzione del cibo. È evidente anche la componente religiosa del film: il livello zero dove si preparano i pasti è il Paradiso, mentre gli altri piani sono una progressiva discesa all’Inferno. Questo meccanismo non si può distruggere, allora per poter resistere in questo microcosmo bisogna farne parte, adattandosi anche alla disumanità. Persino il prigioniero più ostinato (che come unico oggetto consentito di diritto da portare nella prigione ha scelto un libro, Don Chisciotte), dovrà conformarsi a queste regole.
“Il Buco” -di produzione spagnola, diretto da Galder Gaztelu-Urritia- è terribilmente aderente allo stile di vita attuale, nonostante le situazioni siano esasperate. I prigionieri, infatti, sono chiusi in stanze in cui non fanno altro che mangiare (tra l’altro non si tratta di elementi essenziali, ma di cibi raffinatissimi, ma i prigionieri non hanno neanche il modo di rendersene conto, preoccupati come sono ad arraffare la quantità maggiore nel minor tempo possibile); il senso di claustrofobia è tangibile, ma quello che è ancora più evidente è la poca solidarietà dei detenuti, c’è chi calpesta il cibo, chi fa dispetti ancora più indegni. Degli spunti interessanti -più o meno risolti- su cui riflettere ci sono: si può leggere una metafora della società umana, in cui prevalgono l’iniquità, l’ingordigia e l’egoismo.“Il Buco” mette in scena una distopia grottesca, al limite tra il reale e l’inverosimile: il ritratto, per certi versi, può sembrare fin troppo caricaturale e surreale. Mai come in questo periodo storico, però, l’empatia tra lo spettatore e il prigioniero può rivelarsi coerente. Pensiamo soltanto ad ipotizzare, ad esempio, se la quantità di cibo a nostra disposizione non fosse illimitata: riusciremmo a procedere ordinatamente in fila mostrando solidarietà? “Il Buco”, dunque, assume in questo preciso momento un’importanza maggiore: se il film, già di per sé poco spendibile nelle sale cinematografiche, fosse stato distribuito in un periodo di normalità la critica sarebbe stata differente, e forse sarebbe prevalso solo un certo disgusto tipico della saga “Saw – L’enigmista”, per intenderci. A dimostrazione del fatto di come il cinema si moduli a seconda dei fruitori e del contesto, è compito dello spettatore riflettere e approfondire sulle allegorie e i significati di questa distopia.
Mariantonietta Losanno