“Ci sono cose che non possono essere espresse con le parole. È all’incirca questa la natura della pittura; ed è, per quanto mi riguarda, anche quella del linguaggio cinematografico. Ciò che puoi dire con un film non può essere espresso a parole. È questo il bello del cinema”, afferma David Lynch. Comprendere la vita, il cinema, l’arte di questo regista significa precipitare in una voragine: nel suo “paese delle meraviglie” (popolato da nani, giganti, corpi senza vita di reginette del ballo), la percezione è alterata ma mai falsificata, è proiettata al di là del visibile. Sono tante -o troppe- le ossessioni che affollano la mente allucinata di Lynch, regista tra i più visionari della sua generazione, forse uno degli ultimi, come diceva Hitchcock a “pensare per immagini”: il suo cinema è un’esperienza simile a quella che si vive al risveglio, quando il mondo del sogno sfuma lentamente nella consapevolezza.
“Strade perdute” è uno dei suoi film più difficili: cos’è che succede per davvero? Cosa è invece soltanto immaginato? In realtà, si deve percepire il mistero, non la confusione. Come più volte Lynch ha specificato, il mistero è positivo e la confusione negativa: c’è una bella differenza tra le due cose. Delle tracce necessarie a una corretta interpretazione sono contenute nella pellicola: proviamo ad analizzarle. Fred Madison è un musicista jazz che vive con la sua ragazza Renee; soffre di un disturbo che lo porta ad essere spesso confuso e disorientato, quasi schizofrenico, e in preda a questo crollo inizia a dubitare della fedeltà della sua compagna. Una mattina qualcuno citofona ed annuncia che Dick Laurent è morto: da allora cominciano ad essere recapitate in casa videocassette in bianco e nero che prima riprendono la villa da fuori, e poi i due che dormono nella loro stanza senza accorgersi di essere ripresi. La polizia controlla, ma in casa non c’è nessuno.
Lynch mette in scene le infinite psicosi di un uomo che prova rabbia, risentimento, gelosia e ossessione. Ci sono altrettante infinite strade percorribili: c’è realmente un disturbo, ma c’è anche immaginazione; Lynch, coerentemente rispetto ad altre sue opere, si prende l’agio di essere autonomo nel voler raccontare le sue storie.
C’è un’unione di mondi paralleli, reali e surreali: una storia c’è, e per certi versi sembra essere anche lineare, ma molti aspetti vengono celati, sfigurati. Non è importate comprendere quanto sia credibile la narrazione dei fatti, quanto piuttosto analizzare le sensazioni che si avvertono: “Strade perdute” è tanto contorto quanto appassionante. E quell’alone di paranormale è solo un valore aggiunto. Così come Lynch immagina le storie nella sua mente, così vengono riportate sul grande schermo: “Strade perdute” è il suo incubo/sogno. È una combinazione di elementi: è una specie di horror, di thriller, ma fondamentalmente è un mystery. Ecco che cos’è: un mistero. Concediamoci la possibilità di reagire, pensare e sentire in completa libertà.
Mariantonietta Losanno