– rubrica a cura di Silvana Narducci –
Quando pensiamo alle mummie corrono alla mente le immagini dei corpi dei faraoni egiziani conservati in preziosi sarcofagi. Il processo di mummificazione degli antichi egizi è noto: faraoni e uomini di elevato ceto sociale, alla loro morte venivano privati degli organi interni (sistemati nei vasi canopi) e sottoposti ad una pratica di essiccamento del corpo con sale e poi con sostanze alcoliche che impedivano il proliferare dei microrganismi responsabili della decomposizione dei tessuti. Venivano poi fasciati con strisce di tela di lino spesso impregnate di resina, fondamentali per preservare la mummia e consentire una lunga durata nel tempo.
Esistono poi mummificazioni naturali, dovuti a favorevoli condizioni climatiche. Ne è un notissimo esempio Ozi, l’uomo dell’età del rame ritrovato sui monti della Val Senales, in Alto Adige, con il proprio equipaggiamento a 5300 anni dalla sua morte avvenuta in seguito ad una ferita causata da una freccia…
…Ma sapevate che esistono mummificazioni volontarie il cui processo inizia in vita?
E già! La prova di ciò è stata trovata cinque anni fa ad Amsterdam, dove fu rinvenuta una statua di Buddha risalente all’XI – XII secolo. Durante il restauro del reperto, i ricercatori notarono qualcosa di strano. Si decise di eseguire una Tac per individuarne il contenuto…e la scoperta fu sensazionale. La statua racchiudeva i resti mummificati di un uomo, che poi si scoprì essere il maestro buddista Liuquan, e al posto degli organi interni vi erano antiche pergamene con scritti religiosi. Secondo alcune antichissime tradizioni buddiste, infatti, alcuni asceti costringevano il proprio corpo ad una dolorosa preparazione mentale, fisica e alimentare, che aveva il suo culmine nella morte allo scopo di interrompere il ciclo della reincarnazione raggiungendo le alte vette della spiritualità e il Nirvana. Il rituale di “automummificazione”, vale a dire il “sokushinbutsu”, era una pratica che durava almeno cinque/sei anni…lunghi anni di dolorosa agonia “volontaria” a cui ci si sottoponeva, attraverso un graduale impoverimento alimentare, causando una progressiva disidratazione a cui si aggiungeva un lento avvelenamento, per privare il corpo di grasso e liquidi, allontanare i parassiti e prepararlo così all’automummificazione.
Il rituale completo era diviso in tre fasi.
La prima fase durava 1.000 giorni: il monaco si recava nella valle Senninzawa che significa letteralmente “Palude degli immortali”. Qui iniziava una vita di meditazione e duro esercizio fisico e cessava di assumere qualsiasi tipo di cibo ad esclusione di noci, semi, frutta e bacche. In questo modo veniva eliminato quasi completamente il grasso corporeo.
Anche la seconda fase durava 1.000 giorni. Qui in rituale prevedeva che il monaco, il quale si era già liberato di gran parte dei grassi corporei, privasse il corpo ancor più del nutrimento, alimentandosi esclusivamente con piccole quantità di corteccia, aghi e radici, ma mantenendo rigorosamente il corpo e la mente in attività, attraverso un intenso esercizio fisico e meditazione. Questo tipo di dieta e il costante esercizio fisico portava ad una drastica riduzione di peso oltre ad uno sbilanciamento dei fluidi corporei. All’approssimarsi della conclusione dei mille giorni di questa seconda fase, il monaco iniziava ad assumere un tè ricavato dalla corteccia velenosa dell’albero urushi. L’ingestione di questo tè “tossico” provocava all’organismo, già provato, una forte nausea, sudorazione e abbondante diuresi, tutti processi fisiologici fondamentali per la progressiva disidratazione del corpo. Inoltre i tessuti interni e l’epidermide assorbivano la tossina, diventando a loro volta talmente tossici da rendere il corpo, una volta cadavere, repellente per le larve e gli altri insetti che altrimenti se ne sarebbero cibati.
Nella terza fase, quella finale, dopo più di cinque anni di preparazione, il santo affrontava la meditazione più profonda, in cui la mente, perfettamente immobile, si cristallizza in una visione estatica dell’assoluto. Il monaco faceva quindi ritorno nella comunità del villaggio dove, dopo apposite cerimonie, si faceva seppellire vivo. In perfetta posizione del loto veniva, infatti, rinchiuso in un angusto spazio sotterraneo ricavato da lastre di pietra. Sigillato ermeticamente con un unico arbusto di bambù che fungeva da condotto d’areazione. Ogni giorno suonava un campanellino che aveva portato con se; solo quando smetteva di suonare, gli incaricati rimuovevano il tubo di bambù e sigillavano l’ultima via di comunicazione con lo spazio esterno per altri mille giorni.
Alla fine di questo periodo, la tomba veniva aperta e si constatava se il monaco fosse riuscito a mummificarsi. Qualora il corpo risultava essersi decomposto, si provvedeva a chiamare tempestivamente gli esorcisti del tempio per pacificare l’anima tormentata del defunto, poiché essa costituiva un potenziale pericolo per l’intera comunità locale. Il corpo veniva poi nuovamente sigillato nella sua tomba e rispettato per la sua forza di volontà e abnegazione, ma non adorato.
Se, invece, il corpo veniva trovato intatto, perfettamente conservato e mummificato, era ritenuto il segno della sconfitta delle leggi naturali, preservando il corpo del santo incorrotto e realizzando lo stato di sokushinbutsu.La mummia veniva laccata o ricoperta d’oro, cosparsa d’incensi profumati e vestita per essere esposta alla venerazione dei fedeli nel tempio locale come una reincarnazione del Buddha. Nel caso del maestro buddista Liuquan, invece, era stato ricoperto di cartapesta, modellato e dipinto come una statua raffigurante il Buddha.
La terribile pratica di volontaria mummificazione da vivo aveva un’antichissima origine indiana e con il tempo, subendo un’evoluzione buddhista e taoista, in Giapponesi si era inserita perfettamente all’interno di alcune tradizioni religiose ufficialmente riconosciute. Tutti i monaci giapponesi che scelsero volontariamente questa strada, appartenevano, è ormai noto, ad una circoscritta cerchia di iniziati della scuola buddhista esoterica Shingon.
Molte centinaia di monaci nei secoli tentarono il sokushinbutsu, ma a noi ne sono noti solo 28 che hanno raggiunto la mummificazione, molti dei quali possono essere visitati in vari templi in Giappone. Il più famoso è Shinnyokai Shonin del tempio Dainichi-Boo sul sacro Monte Yudono. Altri si trovano nel tempio di Nangakuji, nella periferia di Tsuruoka, e nel tempio di Kaikokuji nella piccola città di Sakata.
Questa antica pratica di automummificazione è continuata fino al XIX secolo quando fu messa fuorilegge dal governo giapponese. Oggi il sokushinbutsu non è praticato da nessuna setta buddista.