– di Adolfo Villani –
La direzione nazionale del PD ha deciso. Nella prossima riunione dell’Assemblea Nazionale di fine febbraio saranno definiti regolamento e percorso di un congresso straordinario che avrà il compito di cambiare il partito, definire la linea politica, approvare un “manifesto per l’Italia di domani”. Le ragioni che rendono straordinario questo appuntamento sono evidenti. Nelle elezioni politiche del 2018 il PD ha registrato un crollo clamoroso. Dopo il contratto di governo lega M5s ha rischiato di ridursi a forza marginale della politica italiana, che sembrava destinata ad essere dominata da una “collaborazione conflittuale” tra due diverse forme di populismo: quello demagogico e protestatario del M5S e quello nazionalista della nuova lega di Salvini. Se poi il PD è riuscito a tenere lo dobbiamo a tre diversi fattori. In primo luogo alla rapida crisi che ha investito il M5s, la cui inconsistenza politica e programmatica è emersa non appena investito di responsabilità del governo. Una crisi che ha aperto un grande spazio alla lega. E cioè alla forza del populismo di destra estrema saldamente ancorata a quella forte ondata nazionalista in atto in tutto l’Occidente spinta dal malessere dei ceti medi dopo il grande crollo del sistema neoliberista, sancito dalla bancarotta del sistema finanziario del 2008 e dalla recessione che ne seguì. In secondo luogo all’allarme suscitato – dalla prospettiva di vedere l’Italia nelle mani della destra estrema – in quella parte ampia dell’opinione pubblica progressista da tempo lontana dall’impegno politico perché delusa dalla deriva del renzismo e dalla frammentazione e inconsistenza del campo della sinistra riformista. In terzo luogo al cambio di leadership nel PD, sancito dalla vittoria di Zingaretti alle primarie del marzo scorso. Il nuovo segretario ha saputo lanciare segnali di apertura e di volontà di cambiamento a queste enormi riserve democratiche ora disponibili a tornare in campo. Ovviamente la crisi del polo progressista viene da lontano, ha cause molto profonde, legate ai ritardi nella comprensione della grande trasformazione tecnologica e sociale degli ultimi decenni. Non possono perciò bastare i segnali politici, né il ribaltone del governo, né la pur importante tenuta in una regione simbolica come l’Emilia Romagna, per cambiare i rapporti di forza nel Paese ancora estremamente favorevoli ad un centrodestra a guida leghista, la cui consistenza elettorale si aggira intorno al 50% dei consensi ed è nettamente più grande di quella oggi in grado di esprimere una ipotetica alleanza tra centrosinistra e M5S (tra l’altro di complessa realizzazione). I 5 stelle, infatti, non solo sono crollati nei sondaggi, da oltre il 30% delle politiche ad un misero 10%, ma sono anche divisi in almeno tre aree con idee molto diverse sulle scelte da compiere per tentare di salvare il salvabile: Conte e Grillo lavorano per ricollocare il movimento in una alleanza di centrosinistra; Di Battista e Paragone guardano a Salvini; Di Maio si illude di poter essere l’ago della bilancia del sistema politico (ritornato al tradizionale bipolarismo tra centrodestra e centrosinistra) mantenendo al tempo stesso il vecchio profilo demagogico e protestatario. Non dico che non sia giusto dialogare con la parte progressista del M5s e con le altre (troppe) piccole formazioni di centrosinistra. Mi pare evidente però che non basta perché non può esserci una risposta politicista a difficoltà legate ad una insufficiente comprensione dei grandi cambiamenti indotti dalla rivoluzione tecnologica e a carenze di pensiero politco. Cambiamenti epocali che determinano uno spaesamento nella vita delle persone che non riescono più a decifrare il mondo nel quale vivono e lavorano. La nuova destra nazionalista è già passata in Gran Bretagna e negli USA, dove sta consolidando la sua forza, perché di fronte a questo spaesamento, a questa paura del futuro, propone una ritorno nelle vecchie frontiere nazionali. Un ritorno in realtà impossibile. Tuttavia la mancanza di una prospettiva credibile di governo di questi cambiamenti determina nell’opinione pubblica il miraggio di poter vivere in un nuovo mondo senza fare i conti con i cambiamenti. Di fronte alla difficoltà credono di poter tornare nelle vecchie “zone di confort”, nell’illusione che sia possibile superare le paure senza accettare lo stato di insicurezza per superare i limiti di analisi e di pensiero che ci impediscono di affrontare le nuove sfide. Nella ultima riunione della direzione Zingaretti ha riconosciuto che “intorno al PD non c è ancora una volontà di andare ad una sintesi”. Ma il punto non è attendere che questa volontà maturi nelle attuali forze politiche che costituiscono il campo di una possibile coalizione alternativa alla destra, quanto invece provare a delineare un nuovo orizzonte per riorganizzare e ampliare questo campo. Un nuovo orizzonte si può delineare se si costruisce una lettura condivisa della realtà economica e sociale nella quale ci muoviamo e una visone comune del futuro. Questo è il compito difficile e al tempo stesso ineludibile che sta di fronte al congresso straordinario del PD. Solo corrispondendo a questo compito sarà possibile fermare l’ondata nazionalista e dare all’Italia una prospettiva di un futuro non marginale nel contesto europeo e globale. Giusto dunque che questo sia un congresso programmatico nel quale ci si confronti su contenuti ed idee intorno a cui ricostruire sia la vita interna al partito che l’amalgama di una larga coalizione progressista. Deve esser chiaro, però, che non si tratterà solo di presentare proposte concrete e praticabili sulle riforme strutturali di cui l’Italia ha bisogno per la sua modernizzazione: dalla riforma di un sistema delle autonomie antico e perciò inadeguato; alla riforma della giustizia che determini tempi giusti per i processi e certezza della pena; alla riforma dell’Università, della ricerca e della scuola per puntare sulla valorizzazione del capitale sociale quale leva per la competitività del sistema Paese. Perché non basta modernizzare il sistema Paese senza, al tempo stesso, attrezzarsi per aggredire le cause strutturali della crisi sistemica che il mondo vive. Queste cause si chiamano: crescita delle diseguaglianze, giunte ad un livello socialmente insostenibile; supremazia delle multinazionali e della grande finanza (sul potere pubblico) che sottrae gettito fiscale agli Stati; rottura dell’equilibrio vitale tra l’uomo e l’ambiente. Si tratta di questioni enormi sulle quali si può incidere solo facendo del PD e della coalizione progressista dell’Italia la forza che con più coerenza lavora concretamente per la costruzione di una grande coalizione di dimensione europea. Una grande alleanza sovranazionale capace di mobilitare forze politiche e sociali su obiettivi di breve e medio termine, capaci di accelerare il processo di integrazione politica dell’Europa (una nuova Europa fondata su un vero Stato Federale). E’ una sfida che fa tremare le vene ai polsi da giocare in tempo utile se vogliamo evitare i disastri del rigurgito nazionalista (e la storia è piena di tragedie prodotte dai nazionalismi). Serve una grande apertura verso i partiti, i movimenti e la società. Ma anche una base di discussione culturale e programmatica solida, che poggi su discriminanti politiche nette e proposte chiare e credibili.