– di Adolfo Villani –
In questi giorni il dibattito tra gli operatori è concentrato sulla valutazione degli effetti che l’epidemia da nuovo coronavirus può avere sulla crescita globale e sui mercati finanziari. Come è noto al momento in Cina le strade delle grandi metropoli e dello shopping sono vuote, mentre si sono fermati 24 distretti industriali nei quali si produce circa l’80% del PIL del Paese. Le conseguenze sono già pesanti per i settori del turismo, del lusso, del petrolio, e cominciano a farsi sentire sulla produzione industriale mondiale, anche perché la carenza di componenti prodotte in Cina incide sull’attività di molte multinazionali. È di stamane la notizia della decisione della Hyundai di fermare gradualmente la produzione nei suoi stabilimenti della Corea del Sud per la difficoltà a reperire componenti prodotti in Cina da società sudcoreane. Non rimarrà la sola a fare questa scelta e non c’è da stupirsi. La Cina è oggi una delle maggiori piattaforme di produzione industriale al Mondo. Considerando l’esperienza dell’epidemia di SARS nel 2003 – e valutando la prontezza della risposta messa in campo per il nuovo coronavirus – molti ipotizzano una riduzione delle stime di crescita per la Cina dal 6 al 5,4% e dell’economia internazionale tra lo 0,1 e lo 0,2%. Dopotutto anche l’arrivo della primavera contribuirà ad un forte contenimento dell’epidemia, per cui è ipotizzabile che – dopo un primo trimestre di certo estremamente difficile – la ripartenza e le misure di stimolo dell’economia, già in via di attivazione, potranno consentire un buon recupero nel secondo semestre dell’anno. Fino ad ora i mercati finanziari non hanno avuto grossi scossoni. Dopo il meno 7,7% dei listini di Shanghai – e la forte correzione sui mercati asiatici – c’è stato il recupero dei listini europei ed americani cui segue oggi un rimbalzo anche dei listini in Cina ed in Asia. In realtà la vera fonte di preoccupazione è legata alla fase di debolezza del ciclo economico nella quale è arrivata la nuova epidemia. Il 2019 ha segnato un rallentamento dell’economia globale che si è poi stabilizzata negli ultimi mesi dell’anno. Di certo il livello della crescita globale si mantiene su livelli bassi ormai da dieci anni e si regge di fatto esclusivamente sulla politica monetaria, fondata a sua volta su altrettanto bassi livelli dei tassi di interesse e su un’abbondante liquidità iniettata in permanenza nel sistema. In tutte le principali aree economiche del mondo, infatti, vi sono problemi strutturali che la politica non riesce ad affrontare. La Cina, ad esempio, accusa un rallentamento dal 2015 legato a ragioni strutturali – che vanno al di là degli effetti della stessa guerra commerciale con gli USA. Pesano diversi problemi: la scarsità di materie prime rispetto ai livelli raggiunti dall’economia del dragone; l’esigenza di contrarre il credito in una fase nella quale bisogna invece puntare di più sui consumi interni; l’invecchiamento della popolazione, causato dall’imposizione del figlio unico e dallo spostamento biblico di popolazione dalle aree rurali alle grandi metropoli industriali. Gli USA, al di la della propaganda di Trump, crescono solo di un 2% – che è abbastanza modesto se si considerano le forti e continue immissioni di liquidità in atto dal 2019, le politiche fiscali espansive, che però hanno tagliato le tasse ai ricchi invece di puntare sulla redistribuzione della ricchezza, l’aumento del debito non solo pubblico ma anche privato (in conseguenza del nuovo boom del credito al consumo e della maggiore leva finanziaria nel comparto del corporate). L’Europa cresce appena dell’1% ma, a differenza degli USA, non ha minimamente usato la leva fiscale ed ha certo margini maggiori da questo punto di vista, oltre che maggiore disponibilità di risparmio interno. Tuttavia non si intravedono ancora le condizioni politiche per un processo di effettiva integrazione che è essenziale per promuovere una crescita più sostenuta. Più che il nuovo coronavirus, dunque, è il virus politico del nazionalismo – che si è diffuso in Occidente dopo la Grande Crisi del 2008 – a rendere l’economia globale fragile e continuamente esposta agli immancabili shock e tensioni geopolitiche. In realtà la debolezza della crescita globale non può essere affrontata dalla sola politica monetaria. Servono politiche fiscali capaci di sostenere i redditi reali, di redistribuire la ricchezza -contrastandone la sua eccessiva concentrazione – e di attivare grandi investimenti per una riconversione ecologica dell’economia che renda sostenibile la crescita dei consumi. Serve insomma una politica che finalmente cominci ad aggredire le cause strutturali della crisi sistemica di questo inizio del XXI secolo. Ma per questo bisogna mettere mano alla madre di tutte le crisi e cioè alla crisi dello Stato. I problemi del Villaggio Globale non possono essere affrontati dalle vecchie nazioni. Servono stati sovranazionali e un nuovo ordine internazionale. È un problema enorme e complesso ma non per questo può essere eluso. L’effetto dell’epidemia di coronavirus sarà certo contenuta dalla grande collaborazione che stiamo verificando tra i governi su questa emergenza sanitaria e dal ruolo importante svolto dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. Molto più difficile da prevedere e da contenere è il rischio politico perché – di fronte al riemergere del virus del nazionalismo, che tanti disastri ha prodotto nel secolo scorso – non si intravede ancora un nuovo pensiero politico globale all’altezza delle sfide del nuovo secolo.