IL CENTESIMO ANNIVERSARIO DELLA NASCITA DI FEDERICO FELLINI, IL REGISTA CHE CI HA INSEGNATO LA REALTÀ DEI SOGNI

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federico fellini ritratto a matita scaled IL CENTESIMO ANNIVERSARIO DELLA NASCITA DI FEDERICO FELLINI, IL REGISTA CHE CI HA INSEGNATO LA REALTÀ DEI SOGNI
FEDERICO FELLINI – Ritratto a matita di Fabrizio Cotogno esposto alla sala Mari del Museo dell’Umorismo di Tolentino nel 2014

“Fellini non è soltanto un grande regista, il più grande del nostro tempo, ne sono sicuro: è soprattutto un creatore, grande, vero, forse anche consapevole, talvolta un po’ sconcertante, che ha attinto dal subconscio il materiale per le sue opere. Per questo lo ammiro profondamente, un po’ geloso, forse, di una persona che sento di non possedere. Per me Fellini “è” il cinema”, ha detto George Simenon. Ci sono artisti che si sono imposti in un particolare periodo storico, che hanno riscontrato successo e risonanza anche per quelli successivi: per Federico Fellini non esiste un tempo, ogni periodo è “il suo tempo”. È complesso raccontare non solo un regista, un uomo e un personaggio, ma un mito: è quasi “oltraggioso” tentare di descriverlo, è come se si avesse l’impressione di non essere capaci di comprenderlo a fondo. Il 20 gennaio si è festeggiato il centenario della sua nascita: proviamo a raccontare la sua immensa genialità attraverso le sue opere.

%name IL CENTESIMO ANNIVERSARIO DELLA NASCITA DI FEDERICO FELLINI, IL REGISTA CHE CI HA INSEGNATO LA REALTÀ DEI SOGNI“I vitelloni” (1953) è un viaggio nel tempo amaro e assurdo della giovinezza”, ha affermato Ennio Flaiano, co-sceneggiatore del film con Federico Fellini. “Vitellone” è una parola inventata, o accettata, dal regista per designare un giovane “perdigiorno”, già abbastanza stagionato, che ha qualcuno che, bene o male, lo mantiene. Non sa bene cosa vorrebbe fare nella vita; i piccoli lavori, le piccole occupazioni che la cittadina di provincia potrebbe offrire alla sua scarsa preparazione, lo disdegnano. Ha compiuto qualche studio, ma è non mai andato fino in fondo; non ha attitudini per nessuna cosa in modo speciale: è il disoccupato della borghesia, insomma. Le passeggiate sulla spiaggia, d’inverno, in un deserto che corrisponde anche alla realtà spirituale dei “Vitelloni” che vivono in una provincia chiusa ed immobile, da cui sentono il bisogno di fuggire, senza averne la forza. La noia, la futilità, lo spreco di tempo e della vita stessa, sono descritti con acume e ironia, ma anche con malinconia ed affetto.

Dolce vita IL CENTESIMO ANNIVERSARIO DELLA NASCITA DI FEDERICO FELLINI, IL REGISTA CHE CI HA INSEGNATO LA REALTÀ DEI SOGNI“La dolce vita” (1960) è un capolavoro di trompe l’oeil (genere di pittura accentuatamente naturalistica, in cui la rappresentazione tende a una concretezza tale da generare l’illusione del reale): sembra vero e invece è dipinto, sembra vivo e invece è girato”, ha detto Mario Soldati. La maniera scelta da Fellini di esporre i fatti e i drammi dei singoli personaggi è del tutto nuova. Si passa da un episodio all’altro, da un quadro all’altro, in maniera che potrebbe sembrare disordinata, con “stacco”, senza “dissolvere”, proprio come in una esposizione di fotografie il cui tema sia, appunto, la “dolce vita” romana: questa falsa e vera vita dolce/amara che si svolge in locali notturni; in appartamenti lussuosi; in castelli, spesso in rovina, del Lazio; ma anche sulla autostrada del mare, e sulla spiaggia deserta di Fregene. Questa Roma appartiene sopratutto alle “star” come Sylvia (Anita Ekberg), agli intellettuali, e qualche volta ai provinciali (come il padre di Marcello, Annibale Ninchi): non è tutta la Roma che si conosce. Per quanto l’opera (e si tratta davvero di un’opera fondamentale nella storia del cinema) sia frutto di una delle più lucide e vivide fantasie che possiede la cinematografia mondiale, niente che sia presente nel film si può dire che non appartenga alla realtà: è tutto artisticamente vero, negli squarci di vita che ci passano davanti. Suicidi con barbiturici, atteggiamenti insensati e tragedie impossibili per cui la logica non trova spiegazione, sacro e profano, doppie vite e piaceri proibiti, raffinatezze che arrivano a capovolgere la dignità umana e ricerca disperata di stordimento “per non sapere”. Perché questo è il vero senso del film: l’umanità esagitata che ci passa davanti, che inventa l’incredibile per vivere una propria vita e soddisfarla ad ogni costo e con ogni mezzo; in definitiva, non sa quello che vuole, è questa la sua vera dannazione.
Nelle tre ore di spettacolo, agile e ritmato, ricchissima è la galleria di tipi, ognuno dei quali ci pare “illuminato”, nel bene e nel male, dalla “moralità” che Fellini ha voluto desumerne. E Marcello Mastroianni, perfettamente identificato nel personaggio che rappresenta, è il perno di questa sovraccarica giostra che ci gira attorno come un turbine: lui, in quella “dolce vita” è fuori posto. Ma quel mondo vuoto e corrotto lo corrompe, mettendolo in bilico tra sentimento e perdizione, tra lavoro onesto e facile, tra cinismo e irrequietezza insoddisfatta. Alla fine, quando si è specchiato, ebbro, in un “mostro”, anche Marcello non vede e non sente più: è perduto.

8 e mezzo1 scaled IL CENTESIMO ANNIVERSARIO DELLA NASCITA DI FEDERICO FELLINI, IL REGISTA CHE CI HA INSEGNATO LA REALTÀ DEI SOGNI“8½” (1963): un caso unico, imparagonabile a qualsiasi altro. Film sullo smarrimento di un artista che dato alla luce un’opera, “La dolce vita” e che ha dovuto affrontare un lacerante travaglio interiore prima della ripresa della propria attività creativa, nel dubbio di avere completamente esaurito se stesso. Fellini cerca di leggere in se stesso, radiografa il proprio processo creativo, si psicanalizza -allo scopo di “liberarsi”-, trasfigura le sue emozioni interiori, racconta la sua intimità. “8½” si presenta come un’opera rappresentativa del nostro tempo: quali sono le condizioni in cui vive l’uomo contemporaneo? Quello che lo spaventa è proprio il suo io, il suo passato e il suo futuro. Eppure questa storia, che è “privata”, possiede un interesse particolare, di documento, sullo stato d’animo di un uomo e in particolare di un uomo-artista. È una sorta di “autotrattamento psicoanalitico”, come abbiamo detto, e non vi si può assistere impassibili. L’opera si presenta come un’improvvisazione geniale: è il gioco di abilità più difficile che il regista abbia mai affrontato. È come assistere ad una serie di acrobazie che il funambolo esegue al di sopra della folla, apparentemente sciolto, disinvolto e in stato di grazia, sempre sul punto di fare un salto più pericoloso, più mirabolante, e allo stesso tempo sul punto di sfracellarsi al suolo: l’acrobata, però, sa compiere al momento giusto la giravolta giusta, con un colpo sa raddrizzarsi, sa salvarsi, e sa vincere. Al pubblico che assiste -e si sente sorpreso ed insieme allarmato ed apprensivo- allo spettacolo singolare, non rimane che applaudire: il gioco è fatto, l’esercizio è riuscito.

Un sovvertitore di schemi, uno dei registi più stravaganti e geniali della storia del cinema: rendere omaggio a Federico Fellini è un dovere

Mariantonietta Losanno