UN’EQUAZIONE AL CUORE

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   –  di  Gabriele Andreani   –  (2° classificato Premio “Anna Castelli” – 2016) pesco 1 scaled UN’EQUAZIONE AL CUORE        Mio padre un mattino tornò a casa con un fagotto intirizzito che sembrava l’incarto vuoto e silenzioso di una caramella che galleggiava in una pozzanghera. Un braccio di quel fagotto ciondolava stridendo come un’altalena arrugginita, l’altro tremolava come un ramo secco scosso dal vento. Quello che era unito a quelle due braccia era piatto, inselvatichito, smunto; persino la testa, una testa calva con uno strato violaceo di pelle vischiosa intorno alle palpebre, pareva il cranio di un topo mangiucchiato da un gatto. Qualcosa che aveva in faccia m’impressionò molto: il naso non era di un uomo da di un puffo che aveva la lebbra, di un pescepalla prossimo a esplodere, di qualcosa di simile a un grosso e lercio brufolo. La strana composizione era dentro un vestito, scialbo, sgualcito, che puzzava di vino, di germi, di escrementi.

Oscillai come un pendolo davanti a quel terrificante ritratto, non gli sorrisi, non gli dissi ciao, scappai nella mia camera e scoppiai a ridere a crepapelle di quel mostro con un brufolo infiammato al posto del naso che mio padre aveva portato a casa dopo aver fatto la notte all’ospedale dei matti.

Mio padre prima di essere infermiere aveva fatto il carrozziere. Le vernici e la polvere gli avevano intasato i bronchi e la gola. Così, su due piedi, durante un notturno attacco di tosse, aveva deciso di cercarsi un altro lavoro, e tra i matti l’aveva trovato il mattino dopo, tra i matti dello Psychiatrisches Krankenhaus (così avevano ribattezzato il manicomio i tedeschi durante l’ultima guerra).

Senza dir nulla a mia madre ogni tanto portava in casa un paranoico, un delirante cronico, un fobico, per fargli prendere una boccata d’aria, per fargli respirare un po’ di tepore familiare. Così si giustificava mio padre con mia madre quando lei s’inviperiva, così diceva a me e a mio fratello che andava ancora all’asilo, pregandoci di esser gentili e di fare pochi capricci. Quando mio padre morì per un cancro ai polmoni e noi tre rimanemmo per qualche tempo senza un soldo, i matti dello  Psychiatrisches Krankenhaus rimasero per sempre in quel manicomio.

Afferrai lo zaino, salutai mia madre che preparava il caffè per mio padre e per il matto, mio padre tossiva mentre aspettava il caffè, il grosso naso ingorgato di tartaro che stava in silenzio in un angolo, e mi precipitai fuori verso la scuola. Giunsi in ritardo, la professoressa d’italiano, una vecchia statua di gesso in piedi presso la cattedra, commentava una lirica che aveva a che fare con un bimbo rapito per sempre al suo affetto paterno a soli tre anni e che in primavera spesso tendeva la pargoletta mano a un melograno.

“La lezione è iniziata da un pezzo Sanchioni… non sei mai puntuale Sanchioni… dopo t’interrogo Sanchioni… ora siediti Sanchioni!” urlò la vecchia statua che andava sbriciolandosi vedendomi strisciare col fiato corto verso i banchi dell’ultima fila. Poi, per una lunghissima ora ci riempì le orecchie di altri versi strazianti, di strutture lessicali complesse, di echi lontani di figli e di padri. Si dimenticò di interrogarmi.

Il resto della mattinata fuggì via sonnolento, senza scossoni, senza latinismi incomprensibili, senza sgradevoli rispondenze sonore, soprattutto senza compiti per casa.

Davanti al portone presi gli ultimi accordi per il pomeriggio con tre miei compagni. Poichè noi quattro non eravamo per niente forti in matematica – i nostri voti erano segnati in rosso nel registro del professore – c’eravamo riproposti di prepararci al compito in classe del giorno dopo unendo le nostre deboli forze e i pochi radicali che avevamo in testa.

A casa pranzai spesso da solo come spesso accadeva quando tornavo da scuola. Con la bocca stracolma di pastasciutta domandai a mia madre dov’era finito il matto schifoso. Lei mi rimproverò per come avevo apostrofato quel povero diavolo, aggiungendo subito dopo che era nell’orto con il babbo e le melanzane. Il discorso finì lì perché alla mamma scottavano i piedi, era in ritardo, doveva ancora prepararsi per fare una scappata dal pediatra con mio fratello che aveva sul viso, sul petto e sul collo preoccupanti puntini rosa.

Nel pomeriggio, intorno alle quattro, arrivarono i miei compagni. Seduti attorno al tavolo della sala da pranzo, tentammo di risolvere alcune equazioni irrazionali di primo e di secondo grado. Non ci trovammo d’accordo neanche sul più misero dei decimali: i calcoli erano tutti sbagliati, le soluzioni tutte diverse, troppo sbagliate e troppo diverse da quelle sul libro. C’era chi voleva scartare una radice, chi insisteva per isolare un’incognita, chi diceva che era tutto inutile, chi confidava di poter copiare il giorno seguente da chi studiava sul serio, da chi riusciva persino a risolvere le equazioni parametriche.

Nel bel mezzo della nostra animata discussione, qualcuno, senza aver prima bussato, spalancò la porta della sala. Comparve mio padre con a ruota quel brufolo con le sue pustole e placche. Mio padre, che era sempre gentile, che era sempre dentro una botte di tosse, intendeva rivolgerci un in bocca al lupo e presentare ai miei tre compagni l’infiammato foruncolo, che, nel frattempo, senza neppure guardaci, si era messo a fissare le equazioni sparse sul tavolo con aria da deficiente. Ricambiammo con fare ossequioso ai colpi di tosse e a quell’augurio. Quando se ne furono andati, gli altri scoppiarono a ridere sui libri, sui quaderni, sulle equazioni sbagliate, qualcuno si lasciò persino cadere in ginocchio sul pavimento per le incontenibili fitte isomorfe alla pancia. Ma non era ancora finita. Furono pronunciate le parole più offensive su quello sgorbio che marciva in un ripostiglio del manicomio, su quell’insetto con uno schifoso brufolo al posto del naso. Ma non bastava ancora. Facemmo persino dei buffi disegni sui quaderni e sui libri di quel naso arrossato, di quello squilibrato che avrebbe fatto scappare i pagliacci e i leoni da un circo. Accadde di li a poco, però, un fatto del tutto imprevisto che fece tremare le penne sul tavolo. La porta si aprì di nuovo e, silenzioso come un fantasma con le pantofole ai piedi, il mostro entrò nella stanza. Rimanemmo tutti di sasso. Ci avrebbe ucciso o ci avrebbe soltanto sfiorato con il suo umido naso? Avrebbe versato il nostro sangue in una botte per berlo al manicomio o ci avrebbe semplicemente sputato del pus? Non avevamo né il coraggio né la forza di guardarlo, né osavamo rivolgergli la domanda più breve. E poi, chi ci avrebbe salvato? Mio padre russava e tossiva tra le melanzane, mia madre stava spiegando al pediatra quando erano comparse le macchie rosa sul petto e sul collo di mio fratello.

Il mostro guardò i libri, i quaderni, le equazioni irrazionali. Con voce opaca non disse che questo:” Posso?” Io avevo la gola secca, feci di si con un cenno del capo. Prese il libro di algebra in mano, tolse di tasca dei fogli e una penna e si trascinò in silenzio verso il divano. Noi l’osservavamo come animali in punto di morte che guardano una iena che non mangia da un mese. Che aveva intenzione di fare? Di disegnare le nostre croci? Di ripassare le tabelline? Su quel libro le tabelline non c’erano, quello era un libro di algebra e di geometria per esseri intelligenti. Ci sono libri simili per i mostri, per gli sgorbi, per i dementi?

Rimase esageratamente piegato per una ventina di minuti sulla penna che spruzzava veloci gocce di inchiostro, che non finiva di scrivere mai, sui fogli spiegazzati e pieni di macchie, su sessanta equazioni irrazionali, su sessanta equazioni che avevano fatto soffrire. Una volta qualcuno mi aveva fatto credere che la penna è un organo del cervello; se quello era il cervello di un pazzo, quali stravaganze avrebbe scritto?

Poi si alzò e lentamente, molto lentamente, venne verso di noi. Diventammo di nuovo guardinghi. Si stava avvicinando come una talpa per sgozzarci con un coltello che aveva sicuramente nascosto nel brufolo? Pronunciò una sola parola, la stessa di prima: “Posso?” Dissi di nuovo di si col capo. Posò il libro e i fogli sul tavolo, fece una specie di inchino e sparì, con una vaga espressione di intelligenza sul viso, dietro la porta.

Guardammo con sospetto quelle pagine fitte, quelle pagine riempite da un pazzo! Quelle pagine avrebbero potuto contagiarci, chi avrebbe avuto il coraggio di prenderle in mano? Mi feci forza azzardai quell’eroico gesto, ero o non ero il padrone di casa? Osservai attentamente l’elegante grafia. Ciò che vidi mi lasciò esterrefatto. Su quelle pagine macchiate di viola c’erano sessanta equazioni senza più incognite con molti germogli, radici e quozienti, con tutti i loro passaggi, sessanta equazioni irrazionali risolte! Nessuno ebbe più voglia di ridere, di proferire nessuna parola sgarbata nei confronti di un santo che non avrebbe dovuto mai e poi mai marcire in un manicomio.

Quella stessa sera domandai a mia madre chi fosse quel genio. “Non ho capito bene… tu sai che il babbo è un uomo di poche parole… gira voce che fosse un uomo molto dotato… un astro… un astronauta… no mi sbaglio, un astrofisico, si mi pare si dica così. Un giorno gli morì il figlio di tre anni sotto una macchina… iniziò a bere senza mai smettere…”

Il compito in classe di matematica fu per noi quattro poco più di un gioco.

Durante l’ora di italiano le lacrime mi rigarono le guance.